Luciano Modica (Pd): “Ecco la nostra risposta alla Gelmini”

Il 3+2 non è un fallimento, i candidati ai concorsi devono essere giudicati preventivamente da una Commissione nazionale di abilitazione, sedi decentrate solo se alla didattica si accompagna la ricerca: Luciano Modica, matematico catanese, ex rettore dell’Ateneo di Pisa, responsabile nazionale dell’Università per il Partito Democratico, illustra a Step1 le proposte del centro-sinistra per riformare il sistema universitario.  


Professore Modica, di recente ha citato uno dei pochi dati positivi per l’Italia nel confronto europeo: riguarda l’offerta formativa, ampliata con la riforma del 2001 che ha introdotto i tre livelli di laurea. Significa che il 3+2 è stata un’idea di successo?

Sono certo che sia stata una buona idea, perché il nostro Paese non poteva continuare ad essere l’unico in Europa cui si offriva un solo livello, la laurea. La prendevano pochissimi, e moltissimi abbandonavano. Allargare il ventaglio dei titoli e differenziarlo era una scelta obbligata, oltre che un impegno europeo. Permettere di attuare meglio le aspirazioni, le capacità dei ragazzi, la loro voglia di studiare o di lavorare, mi sembra un’idea da difendere. E’ stato fatto un ottimo lavoro nella riforma, nell’applicarla però abbiamo fatto una marea di errori. Si dice che ha avuto cattivi risultati. Ancora abbiamo solo due generazioni di laureati magistrali, e cinque triennali: i dati che cominciano ad affluire dimostrano che sta aumentando il numero di persone che concludono il loro percorso di studi, a vari livelli. E’ anche falso che tutti i laureati triennali si iscrivano subito al livello successivo: siamo al cinquanta per cento. Molti continuano a studiare, sì, ma questo è un fatto negativo?
 
Riguardo ai dieci punti presentati dal PD, le Commissioni per il reclutamento dei docenti dovrebbero valutare in base ai giudizi di esperti italiani e stranieri. Non si rischia di avere tempi troppo lunghi per i bandi?
Molto meno di adesso. Mandare per posta un curriculum ad un esperto straniero del settore e chiedergli cosa ne pensa è il lavoro normale di tutti i professori. Lo fanno certo in un paio di giorni, non un minuto, ma convocare la commissione, prendere il treno, fare la prova scritta, riunirsi, fare tonnellate di verbali, fa perdere più tempo. Non è un’invenzione nostra, tutto il mondo usa il sistema dei revisori.
 
Il fatto che la stessa Commissione sia decisa a livello di ateneo, non porterebbe nuovamente ai fenomeni deleteri tra “parentopoli” e selezioni affatto trasparenti?
La nostra stessa proposta introduce un altro livello, la Commissione di abilitazione. Per poter partecipare al concorso bisogna prima aver superato, in base al proprio curriculum, un livello minimo nazionale, per diventare professore associato. A quel punto si fanno i concorsi. E’ una commissione nazionale completamente fuori dall’ateneo, per metà elettiva e per metà nominata dal Nucleo di Valutazione del Sistema Universitario.
 
Le produzioni scientifiche di un docente vi sembrano un criterio adatto anche per le facoltà umanistiche?
Sinceramente sì. Non nel senso che tutti pubblichino articoli, ma anche e soprattutto nelle facoltà umanistiche la qualità scientifica di una persona si misura su quello che ha scritto, e non detto o pensato: libri, saggi, monografie. E’ chiaro che non si usano gli stessi criteri tra facoltà scientifiche e umanistiche, in termini anche banalmente numerici. Ma la regola è uguale per tutti: quanto si è scritto.
 
Per quanto riguarda il problema delle sedi decentrate, quali sono i criteri in base a cui si decide cosa tagliare e cosa no?
Il ministro Mussi, in attesa di capire, aveva attuato una moratoria: “fermatevi, non ne fate più”. I criteri li avevamo scritti, non abbiamo avuto il tempo di trasformarli in legge. Primo, ogni sede decentrata deve risultare da un accordo tra università, ente locale ma anche regione. Ci vuole un organismo di coordinamento territoriale, che non può essere Roma, troppo lontano.
Seconda condizione, non deve nascere né rimanere viva nessuna sede universitaria che non veda contemporaneamente didattica e ricerca.
 
Cosa pensa del Movimento Studentesco?
Sono studenti che hanno un desiderio di concretezza che non avevo mai visto. Fanno anche campagna a livello politico, ma sono ragazzi che vogliono sapere cosa facciamo esattamente.
L’aspetto negativo è ovvio: riguarda ancora una minoranza assoluta di studenti. I migliori forse, li hanno chiamati “il movimento dei 30 e lode”, ma anche politicamente parlando. Ma così è troppo facile per chi non li condivide dire “sono pochi, sono marginali”. Non è colpa loro comunque, siamo noi partiti che dobbiamo creare delle strutture che attirino i ragazzi. Non vogliamo prenderceli, ma vogliamo che crescano, anche liberamente, ma crescano.
 
Vi sono state rivolte delle critiche riguardo al caso Sky e alla vostra battaglia a favore del vecchio squalo Murdoch. Anche riguardo all’Università vi accusano di difendere i baroni, lo status quo…
Secondo me sono delle critiche ingenerose, sinceramente. Posso capire che prima del 28 ottobre apparivamo senza idee. Ma sfido a trovare qualunque altra forza politica, compresa la maggioranza, che abbia detto nero su bianco come intervenire. Possono non piacere, possiamo aver sbagliato, aver dimenticato tanti problemi, ma mi sembra un po’ ingeneroso accusare l’unico che è uscito allo scoperto. L’11 febbraio io sarò a Roma, spero con trecento, quattrocento persone da tutta Italia, per discutere questi dieci punti e verificare se la nostra risposta piace.


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