L’università senza trucchi

L’incipit appare come una dichiarazione di guerra. Si attaccano senza mezzi termini gli intenti denigratori che hanno accompagnato un discorso strumentale alla volontà del governo di operare tagli di spesa indiscriminati: “Con la presunzione di individuare le anomalie dell’università italiana ma senza mai operare un confronto serio e sistematico, bensì solo episodico o aneddotico, con la situazione dei nostri vicini europei”.

In particolare è messa sotto accusa l’ipocrisia delle recenti “Linee Guida del Governo per l’Università” (6 novembre 2008). Un testo pieno di belle parole che contrastano con un discorso pubblico aggressivo, amplificato dai media “che di università e ricerca purtroppo si occupano assai raramente con serie inchieste giornalistiche”.  Un discorso sull’università italiana “che afferma di volerne curare le malattie senza preoccuparsi di distinguere gli organi sani e vitali da quelli malati. E che spesso propone diagnosi e terapie che sembrano pensate apposta per deprimere ulteriormente il malato, quasi per dargli il colpo di grazia”.

A lanciare queste accuse sono alcuni dei massimi esperti italiani di sociologia dei sistemi educativi. Una equipe coordinata dal prof. Marino Regini, ordinario nel Dipartimento di studi del lavoro e del welfare e pro-rettore dell’Università degli studi di Milano, di cui hanno fatto parte altri cinque docenti e ricercatori della Statale: Gabriele Ballarino, Daniela Bellani, Sabrina Colombo, Loris Perotti e Renata Semenza.
 
Per favorire un utilizzo immediato dei dati nel dibattito attuale sull’università italiana, l’indice del volume, assieme all’introduzione e una selezione delle tabelle e dei grafici in esso contenuti sono stati pubblicati sul sito dell’università di Milano.

Vi anticipiano alcuni stralci dall’introduzione.

Pochi laureati perché manca una vera politica del diritto allo studio

Colpisce che il tasso di laureati sia così insoddisfacente non perché siano pochi gli ingressi nel sistema universitario, ma perché rimangono troppo elevati gli abbandoni. Non vi è dubbio che a questo cattivo risultato concorra in forte misura l’assenza in Italia di una vera politica di diritto allo studio, comparabile in qualche misura a quelle degli altri paesi europei. I dati che presentiamo mostrano che, sia per le residenze universitarie, sia per le borse di studio o i prestiti agevolati, sia più in generale per la spesa in servizi agli studenti, l’Italia è il fanalino di coda. E l’assenza di una vera politica, nazionale o regionale, volta a garantire il diritto allo studio ai meritevoli e non abbienti, inevitabilmente condiziona negativamente la possibilità di completare il percorso di studi universitario.

Le università italiane non sono affatto così in basso nelle classifiche internazionali

La percentuale di università italiane presenti nelle quattro principali classifiche dei primi 500 atenei del mondo (per brevità, ranking di Shanghai, del Times e di Taiwan) o dei primi 250 atenei europei (ranking di Leiden) è superiore a quella delle università spagnole e, tranne che nel ranking del Times, anche di quelle francesi. Nei più recenti ranking di Taiwan e di Leiden, che più degli altri pesano la produttività scientifica, la percentuale di università italiane presenti è addirittura superiore a quella delle università inglesi e molto vicina a quella delle tedesche. Certo, questo dato tiene conto solo del numero di atenei presenti in questi ranking, indipendentemente quindi dalle loro posizioni relative nella lista dei top 500 o 250, ma è pur sempre un indicatore della qualità media delle università dei vari paesi.
Se poi cerchiamo di capire come mai in uno di questi quattro ranking – quello del Times assai citato – il posizionamento risulta meno soddisfacente, dobbiamo guardare i punteggi assegnati a ciascuno dei 6 indicatori sulla base dei quali il ranking è costruito. Scopriremo allora che il non brillante risultato complessivo dipende da due indicatori che solo parzialmente sono sotto il controllo degli atenei: il numero troppo basso di docenti in rapporto agli studenti e la scarsa attrattività internazionale, almeno in parte dovuta alla lingua e all’assenza di residenze universitarie già indicata. Mentre sugli indicatori di produttività e reputazione scientifica (citations/faculty e peer review), oltre che di gradimento dei datori di lavoro, le università italiane conseguono un punteggio complessivamente migliore di quelle francesi, tedesche e spagnole.

Come hanno reagito in Francia e in Germania

Le polemiche recenti mostrano chiaramente il loro intento denigratorio quando le si confronti con le reazioni suscitate dalla pubblicazione di questi ranking in Germania e in Francia. La reazione dell’opinione pubblica e del ceto politico è stata di forte preoccupazione per la scarsa competitività delle università tedesche e francesi rispetto a quelle del mondo anglosassone. E le risposte sono andate dal lancio di una Exzellenzinitiative in Germania, che ha mobilitato ingenti risorse (1,9 miliardi di Euro) per creare “top universities” capaci di competere con quelle americane, alla legge Pécresse dell’agosto 2007 in Francia, che prefigura la fisionomia del sistema per i prossimi 5 anni prevedendo un notevole investimento finanziario (5 miliardi di euro in 5 anni). Risposte in entrambi i casi ben diverse da quelle di carattere “punitivo” previste invece per le università italiane.

Una università dei baroni? Occorre distinguere il grano dall’oglio

E’ il tema forse più delicato, quello che sta al cuore delle accuse lanciate al sistema universitario italiano per legittimare la riduzione dei finanziamenti. Un sistema, si sostiene, dominato dagli interessi e dai privilegi di una casta accademica che spesso agisce in modo corrotto e clientelare. Una università dei baroni, insomma, che da più parti viene additata agli studenti che protestano contro quella riduzione dei finanziamenti come il vero bersaglio di un’azione moralizzatrice, preliminare a qualunque rilancio del sistema universitario. (…) Ciò che tuttavia sconcerta, nei contenuti e ancor più nei toni di queste accuse, coloro che nell’università lavorano con serietà e passione e con risultati riconosciuti internazionalmente, sono tre aspetti.

Il primo è la natura generalizzata e indiscriminata delle accuse, che denota una straordinaria incapacità di discernere il grano dal loglio, salvo che non si voglia pensare a una intenzionale disinformazione per delegittimare l’intero sistema. Questa incapacità è tanto più paradossale in quanto la denigrazione generalizzata viene spesso proposta ai media da studiosi che nel sistema universitario italiano hanno ricoperto per molti anni posizioni di notevole rilievo scientifico e di grande potere accademico. Il che, a rigor di logica, può portare solo a due conclusioni: o che sono stati conniventi, se non protagonisti, di una grande truffa; oppure, più plausibilmente, che il sistema è molto diversificato e accanto a filiere clientelari produce filiere basate sul merito.

Con la polemica su parentopoli si sta nascondendo la piaga del localismo

Il secondo aspetto che sconcerta è che il quadro, dipinto a tinte così fosche, di un mondo dominato solo da corruzione e clientelismo, finisce col produrre un risultato paradossale: porta tutti coloro (la maggioranza) che in questo mondo operano ma non si riconoscono in quel quadro a rifiutare sdegnosamente le accuse, in tal modo rendendo più difficile affrontare i problemi strutturali che sono alla radice degli effettivi malfunzionamenti e degli esiti perversi. Quando ad esempio tutto il meccanismo dei concorsi viene ricondotto a una gigantesca “parentopoli”, di cui si citano casi circoscritti a sedi e facoltà specifiche come se caratterizzassero tutto il sistema universitario italiano, si finisce paradossalmente con il distogliere l’attenzione da quelli che sono nodi reali da sciogliere nel sistema di reclutamento in Italia: ad esempio il tradizionale “favor loci” che porta a esimere parzialmente il candidato locale da una competizione puramente basata sul merito, l’assenza di obblighi di valutazione periodica che riduce a poco più di una formalità persino la procedura della “conferma in ruolo”, ecc.

L’ingenua fiducia nel “mercato” è contraddetta da tutte le esperienze internazionali

Il terzo aspetto che sconcerta è il semplicismo o la finta ingenuità con cui vengono proposte soluzioni alternative, come se fossero a portata di mano e facili da adottare se solo ve ne fosse la volontà. Da questo punto di vista, i “medaglioni” che offriremo nel 4° capitolo sui sistemi di governance e sui sistemi di reclutamento che si sono succeduti nel tempo negli altri paesi europei mostrano la grande variabilità e la straordinaria instabilità delle soluzioni adottate. Segno inequivocabile del fatto che si tratta di problemi molto complessi, per i quali non esiste una ricetta facile e sicura. Tutti i sistemi europei si sono evoluti verso una maggiore autonomia concessa alle università in cambio di maggiore disponibilità a essere valutate, verso una ricerca di accountability nei confronti della società, verso meccanismi che consentano maggiore efficienza, trasparenza ed equità. Ma non esiste una one best way che si possa semplicemente imitare, un sistema che di per sé garantisca risultati ottimali.
E’ in particolare l’ingenua fiducia nel mercato e nella sua capacità di produrre automaticamente soluzioni ottimali se lo si lasciasse libero di operare – proprio in una fase storica in cui le
market failures sono al centro dell’attenzione in tutto il mondo.. – quella che lascia più perplessi in molte delle “ricette” che circolano nel discorso pubblico. Fiducia totale nei meccanismi di mercato, che frequentemente si accompagna a una derisione degli appelli a una maggiore etica professionale. Eppure, persino nel “mercato” dei professori più aperto del mondo, quello delle università d’élite americane, l’elemento cruciale non è il mercato stesso, ma l’importanza della reputazione nella comunità scientifica.


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