Operazione Penelope, Cappello comandava dal 41bis «È la prima volta che investono nei rifiuti e ristoranti»

«Per la prima volta il clan Cappello si è inserito in maniera forte nel settore economico della città di Catania». È questa la principale novità che porta in dote l’operazione antimafia Penelope, portata a termine, su delega della procura etnea, dalla squadra mobile locale in collaborazione con il Servizio centrale operativo di Roma. In manette sono finite 30 persone, mentre una è ancora latitante. Potrebbe trattarsi di Balahassen Hanchi (classe 1973), marocchino ma perfettamente integrato a Catania, tanto da essersi guadagnato lo pseudonimo di Enzo. La cosca, decimata negli ultimi due anni da centinaia di arresti con le inchieste Revenge, si sarebbe organizzata nuovamente con un struttura gerarchica al cui vertice ci sarebbero stati Santo Strano, Giovanni Catanzaro, Giuseppe Lombardo, Calogero Balsamo e Massimiliano Salvo.

Quest’ultimo, secondo il procuratore capo Carmelo Zuccaro, sarebbe stato «lo stratega». Una sorta di colonnello con compiti operativi – catturato dagli agenti in un hotel di Parma -, avrebbe gestito le attività criminali nel capoluogo etneo. Il suo in città è un cognome di spessore, anche per i trascorsi del padre e del fratello Gianpiero, finito al centro delle cronache durante l’edizione 2015 della festa di Sant’Agata. In quell’occasione la candelore degli ortofrutticoli si fermò nei pressi del suo balcone in via Torre del Vescovo. Una sosta con successiva annacata che è stata svelata in esclusiva da MeridioNews. Tra le menti dei Cappello ci sarebbe stato anche Balsamo, al quale sarebbe spettato il compito di monitorare gli affari nella piana di Catania ma anche nei Comuni del calatino e dell’hinterland pedemontano.

I soldi da sempre sono il pallino fisso della mafia ma in questo caso i Cappello si sarebbero evoluti. Non solo la gestione delle piazze di spaccio a Librino e San Cristoforo ma anche bar, ristoranti, negozi di abbigliamento e rifiuti. Business milionari che fanno emergere il ruolo di Giuseppe Guglielmino. «Il suo colletto non era bianco ma grigio – spiega Zuccaro in conferenza stampa -. Era inserito organicamente nel clan e diceva “Io sono Cappello”». L’arrestato negli ultimi anni, grazie alle società Geo Ambiente, Clean Up ed Eco Business – delle quali è stato disposto il sequestro dell’intero patrimonio aziendale – aveva collezionato appalti per la raccolta dei rifiuti in diversi Comuni della provincia di Catania e in Calabria e non solo, come spiega il sostituto procuratore Pasquale Pacifico: «Abbiamo monitorato i suoi rapporti con la famiglia Grillo, vicina al clan camorristico dei Casalesi. In Campania Guglielmino stava per vincere l’appalto per la raccolta dell’immondizia a Casal di Principe ma l’affare è fallito per poco».

Nello scacchiere della cosca etnea si sarebbe ritagliata un ruolo autorevole anche Maria Rosaria Campagna, meglio nota come la moglie del capomafia ergastolano Salvatore Cappello. Lo storico padrino, arrestato nel 1992 e con un carisma criminale paragonabile a quello di Nitto Santapaola, avrebbe continuato a comunicare con l’esterno attraverso la consorte nonostante la detenzione al regime del carcere duro del 41bis. «Portava gli ordini del marito ma disponeva di un ruolo preciso, come quando fu costretta a mediare con alcune cosche calabresi per una questione relativa ai rifiuti». La donna ogni mese avrebbe beneficiato della somma di diecimila euro, come svelato durante un’intercettazione ambientale: «Noi abbiamo a Turi Cappello – spiega Calogero Balsamo – ogni mese sono diecimila euro perché c’è sua moglie che deve fare il colloquio e ci va con l’aereo». Sempre lo stesso uomo traccia una somma di quanto costi mensilmente il mantenimento del clan, tra soldi da versare nei penitenziari, famiglie da mantenere e parcelle degli avvocati da pagare. Ogni mese si dividono tra i 350mila e i 400mila euro. C’è una scala gerarchica che ti dice a chi 500 e a chi 1000 euro». 

L’inchiesta, particolarmente difficile per la propensione degli arrestati a effettuare continui spostamenti, abbraccia un arco temporale che va dal 2012 al 2014 e ha portato al sequestro di una patrimonio del valore di oltre dieci milioni di euro. I soldi sarebbero stati affidati a una rete di teste di legno attive anche nei settori della ristorazione. I sigilli sono stati apposti a un azienda per il commercio di genere alimentari di via del Ciclamino, ma anche a un bar che si trova nella centralissima piazza Cutelli. Stop anche per una pizzeria con sede a Napoli che avrebbe fatto riferimento alla moglie di Salvatore Cappello. Nella lista ci sono un caffè in via Torino e un supermercato con sede a Siracusa. Oltre i 30 arrestati nell’inchiesta ci sono numerosi indagati proprio per il reato di intestazione fittizia di beni. Tra di loro, ma con la contestazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con l’aggravante della violenza, c’è Roberto Feri. Imprenditore inizialmente vittima di estorsioni che con il passare del tempo si sarebbe avvicinato al clan per riuscire a soddisfare un credito. 


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