Lampedusa, cronaca di uno sbarco

Pomeriggio inoltrato. Il sole riflette la luce sul mare. Ancora per poco. Al porto vecchio, un via vai di gente e di mezzi di trasporto. Medici in camice bianco che entrano ed escono dalle autoambulanze, arrivate in tutta fretta a sirene spiegate. Pullman parcheggiano sul piazzale interno. E pattuglie di polizia si sistemano schematicamente all’ingresso del porto. Siamo a Lampedusa. E Croce Rossa e forze dell’ordine si preparano all’arrivo di un barcone carico di migranti disperati. C’è silenzio tutto intorno, solo lo scalpiccio dei passi frettolosi degli operatori impegnati nei preparativi. I volontari della Croce Rossa sistemano, ai bordi del molo interno, un gruppo elettrogeno. Un operatore controlla che tutto sia apposto. Gli altri fanno la spola dalla banchina alla tendopoli, adibita ad ambulatorio medico. Qualcuno  rimane dentro la tendopoli. Qualche altro, fuori.

E mentre il sole sta per cedere il testimone alla luna, le luci delle ambulanze all’interno si accendono, e il rombo del gruppo elettrogeno, prima spento, comincia a entrare ritmicamente nella testa. “Stanno arrivando, stanno arrivando” grida un giornalista alle mie spalle. Alla mia sinistra, celata dagli alti scogli puntuti, appare la motovedetta della guardia costiera, il cui fragore sembra quasi mescolarsi con il roteare incessante delle pale dell’elicottero di avvistamento che la sorvola. Gli operatori si avvicinano al gruppo elettrogeno. E insieme a loro anche le forze dell’ordine che si apprestano a chiudere i cancelli della recensione di ferro che separa il molo interno, quasi a ridosso dal mare, dalla banchina del porto, teatro delle operazioni di sbarco. “Sta arrivando un barcone allora?” domando a uno di loro. “Sì, eccolo” risponde, mentre lo indica con l’indice della mano.

A qualche metro di distanza, dietro la motovedetta, la sagoma di una carretta del mare. Si accende la luce elettrogena che illumina i profili delle ombre che affollano la barca. Sono centinaia gli uomini e le donne  all’interno. Stipati, schiacciati l’uno contro l’altro. Alcuni di loro appesi persino alla cabina della barca. Due addetti della Guardia Costiera, saliti all’avvistamento, ispezionano la nave e i naviganti. La carretta viene fatta avvicinare al molo.

L’attracco è difficoltoso. Ma i due uomini della guardia costiera all’interno della barca, e i poliziotti all’esterno, guidano la manovra. I migranti rimangono in silenzio. Qualcuno si muove. “Sit down, sit down”  gli urla un poliziotto. E i mediatori culturali, accorsi repentinamente, gli traducono  in arabo le sue parole. L’ormeggio non è mai sicuro, bisogna equilibrare il baricentro della barca per evitare bruschi spostamenti che la facciano capovolgere. Aiutati dalle mani tese dei poliziotti, i migranti lasciano la barca e salgono sulla banchina in fila indiana. Comincia il conteggio. I primi sono bambini e donne, qualcuna di loro è incinta. Altre affidano alle braccia degli operatori della Croce Rossa i propri neonati. I piccoli sembrano impauriti e al contempo meravigliati. Forse intontiti dalla luce che li acceca. Forse dai rumori o dai visi mai visti che si affollano dinnanzi ai loro occhi.

Arrivano i volontari di Save the Children e di altre Ong, da tempo stabili sull’isola, che li soccorrono e scortano fino alla tendopoli per accertarsi delle loro condizioni di salute. Una donna incinta viene fatta salire su una autoambulanza, e portata al poliambulatorio del luogo. Poi tocca agli uomini scendere. Uno a uno si siedono per terra, l’uno accanto all’altro, per facilitare la conta e la perquisizione. I loro occhi non sembrano tanto dissimili da quelli dei bambini, tranne che per la consapevolezza che vi balugina. Molti di loro stringono tra le mani delle bottigliette di acqua. Altri dei sacchetti di plastica che vengono ispezionati dai poliziotti. Un tanfo si propaga nell’aria. Sgradevolmente, attecchisce nelle narici e nei cuori degli abitanti che stanno a guardare. I loro occhi sembrano essersi abituati alle scene degli sbarchi, ma la loro pietà ancora no. “Ne ho visti tanti, ma mi fanno ancora pena come la prima volta” sussurra una donna all’orecchio del marito, mentre osservano attraverso la recensione.

Dopo i controlli, i migranti salgono sugli autobus che li porteranno al centro accoglienza. Le donne e i bambini, invece, vengono fatti salire su dei mini bus che li condurranno alla base Loran, centro adibito specificatamente per loro. I giornalisti si affrettano a seguirli con gli obiettivi delle loro macchine fotografiche. Alcuni di loro, dagli autobus, salutano ridendo. Il viaggio dalle loro terre all’isola di Lampedusa è finito. E lo sbarco è passato. Salutano, con la serenità di chi ha tirato un sospiro di sollievo. E si prepara, pensando a ciò che accadrà dopo, a trattenere ancora una volta il fiato.


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