Corrado Labisi e i fondi pubblici come «bancomat» «Ora vediamo a chi dobbiamo fare saltare la testa»

Il doppio volto di Corrado Labisi. Da un lato l’impegno nell’antimafia dei riflettori, con l’annuale consegna di premi e riconoscimenti, e dall’altro il presunto utilizzo di fondi pubblici per scopi privati. Sullo sfondo il suo ruolo di amministratore dell’istituto medico psico-pedagogico Lucia Mangano di Sant’Agata li Battiati. Realtà privata, convenzionata con la Regione Sicilia, nata nel 1958 per occuparsi di riabilitazione e assistenza a disabili e anziani. Sono questi gli elementi chiave dell’inchiesta Giano bifronte, dal nome della divinità bicefala, portata a termine dalla Direzione investigativa antimafia su delega della procura di Catania. I magistrati ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla dissipazione di fondi pubblici. Insieme a Labisi, finito dietro le sbarre, quattro persone sono agli arresti domiciliari. Si tratta della moglie Maria Gallo, della figlia Francesca, e di due collaboratori: Gaetano Consiglio e Giuseppe Cardì

«Le contestazione iniziano dal 2011», spiega in conferenza stampa il sostituto procuratore Fabio Regolo. Ma in realtà il modus operandi di Labisi risalirebbe a molti anni addietro. Lo schema tratteggiato dagli inquirenti svela un presunto sistema che avrebbe portato al collasso la clinica privata con un debito di oltre dieci milioni di euro. Adesso a rischio ci sono oltre 100 posti di lavoro e la procura etnea ha avanzato istanza di fallimento nei confronti della società che si occupa della gestione.  Ma dove andavano a finire i soldi pubblici? Qui entra in gioco l’impegno antimafia di Labisi e dell’associazione Livatino. Da un lato il premio dedicato alla defunta madre Antonietta e, dall’altro, quello intitolato ai magistrati vittime della mafia Rosario Livatino, Antonio Saetta e Gaetano Costa. L’indagato, per esempio, avrebbe speso i soldi per pagare le fatture emesse dall’agenzia Publikompass per pubblicizzare gli eventi organizzati dall’associazione. Ci sarebbero poi le spese sostenute dalla moglie e dalle figlie, compreso il pagamento di cene e soggiorni di amici vari.

Così Labisi, negli anni, si sarebbe costruito l’immagine di paladino della legalità. Forte del suo inserimento nella massoneria, con un ruolo in passato come gran maestro della Serenissima gran loggia del Sud, e beneficiario di rapporti di alto livello con il mondo delle istituzioni ma anche con quello imprenditoriale. C’è poi un capitolo grigio in cui emerge l’amicizia, messa nero su bianco nell’inchiesta antimafia Fiori bianchi del 2013, con il faccendiere della famiglia Santapaola-Ercolano Giorgio Cannizzaro. Presente in prima fila, tra l’altro, anche al funerale della madre dell’indagato. Anche se in questa indagine non ci sono contestazioni legate al mondo di Cosa nostra. Quello di Labisi, secondo i magistrati, sarebbe stato «un comportamento spavaldo con la capacità di penetrare nelle maglie istituzionali».

Un riferimento non casuale. Dopo che gli investigatori, nel settembre 2017, prelevano dei documenti nell’istituto per anziani e disabili Labisi viene intercettato mentre parla con un impiegato del ministero della Difesa, a quanto pare appartenente ai servizi segreti. «Dobbiamo capire a 360 gradi se c’è qualcuno che deve pagare perché questa è la schifezza fatta a uno che si batte per la legalità. Vediamo a chi dobbiamo fare saltare la testa». Dall’altro lato della cornetta gli inquirenti attestano che non ci sarebbe stata una vera e propria attivazione dell’interlocutore di Labisi ma «nemmeno una presa di distanza. Chi ascoltava il suo sfogo annuiva», spiega il procuratore capo Carmelo Zuccaro. Altre intercettazioni riguardano i due dipendenti dell’istituto. Spesso beccati a parlare, secondo gli investigatori, delle questioni economiche della Lucia Mangano con riferimenti decisamente espliciti. «Non è facile, come associazione loro non possono giustificare quei soldi», spiegava Cardì a Consiglio. E ancora: «Lui in una struttura da 240 dipendenti si ammucca 300, 400mila euro. Alla Regione questo che si sarebbe mangiato?». «Erano assunti sulla carta ma restituivano parte dello stipendio – spiega Regolo riferendosi a Consiglio e Cardì – Utilizzavano anche alcune automobili intestate all’istituto».

Nel dettaglio Labisi avrebbe utilizzato per fini personali quasi un milione e mezzo di euro. La moglie, invece, 384mila euro. Nel 2017, per fare fronte alla situazione debitoria dell’istituto, Labisi ha venduto un ramo d’azienda a un’associazione calatina, compresi debiti erariali e previdenziali. A questo punto il consiglio d’amministrazione era stato rivisto con al vertice Francesca Labisi. Che avrebbe messo alla porta, forse solo apparentemente, il padre.


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