Scene senza immagini per rivivere Lampedusa Ai Benedettini spettacolo di Enia e Barocchieri

Sotto le sferzate di quel vento che lunedì sera è planato su Catania, nel chiostro di ponente del monastero dei Benedettini, una manciata di catanesi intirizziti ha assistito a Scene dalla frontiera di Davide Enia e Giulio Barocchieri, uno dei tanti appuntamenti della rassegna Porte aperte. La frontiera di cui parla il titolo non è quella di un campo di battaglia. O forse lo è? Certo, ci sono i cadaveri, il puzzo di morte, la furia politica, la vita e la morte giocate in un istante. In un certo senso la frontiera di cui Enia ci parla – da testimone oculare – è il più tormentato campo di battaglia dell’Europa di questo millennio: Lampedusa. Lo spettacolo è la riduzione teatrale del romanzo dello stesso Enia, Appunti per un naufragio, vincitore del Premio Mondello 2018. Una riduzione di una semplicità scenica assoluta: un palco e due sedie, sullo sfondo della fontana bianca al centro del chiostro. 

Allo stesso modo, semplice è il linguaggio: la semplicità antica dei cantastorie – una voce (Enia) e una chitarra (Barocchieri) che dà ritmo e umore al racconto. Davide Enia, attore e drammaturgo oltre che scrittore, instaura da subito un rapporto immediato con il ristretto pubblico, e con franchezza inizia il racconto: «In mare la morte c’è compagna, sempre», disse il sommozzatore. È stato un amico tedesco a chiedere a Enia di parlare pubblicamente e poeticamente del dramma degli sbarchi. Ed Enia ha fatto l’unica cosa che poteva fare per parlarne con autenticità: è andato a Lampedusa, portando con sé il padre. Ed ecco che i piani narrativi s’intersecano – reportage di viaggio, autobiografia, cunto, canto, modulo drammatico e lirico. Le musiche di Giulio Barocchieri segnano queste modulazioni, ancora una volta sotto il segno della semplicità – suoni distorti, con chitarra elettrica e mixer. E ogni tanto un assolo rock, roco come un lamento. E tutta l’esperienza è intrisa di vissuto personale, con i personaggi cari all’autore che si stagliano sul fondale della narrazione: il padre che è Muto (come la montagna), il fratello malato di cancro, il sommozzatore che è Enorme, lo zio Beppe, gli amici Paola e Melo. 

E ancora il padre, a cui Enia si scopre identico, quantomeno nel ritmo, identico, del «quartìo». E poi lo sbarco, la legge crudele del mare, la dismisura della Storia. E infine l’unica verità, che solo Lampedusa, con le sue spiagge trasformate in cimitero, può rivelare: che «rintra avimu tutti l’ossa ianchi». E che «origine» è una parola abusata; perché, come svelato dal mito, Europa è una fanciulla che viene dall’Africa. Perché dunque un (altro) spettacolo sui migranti? Perché, nel millennio in cui una valanga violenta di immagini ci investe la retina, dandoci la possibilità di vedere lontano, e l’impressione di aver vissuto quel che vediamo, è una sana riscoperta l’inversione gerarchica tra parola e immagine. Qualcuno che ha visto e vissuto in prima persona, a occhio nudo e vivo, racconta solo con suoni e parole. 

In Scene dalla frontiera non ci sono in realtà «scene», è tutto udito: il vissuto di un testimone oculare che si fa racconto e musica musica. E basta l’udito, a evocare – alla mente – le immagini. Arrivano da lontano, non immediate, ma come un’eco, già plasmato dal sentimento, filtrate dal suono della chitarra, amplificato dalla cassa di risonanza di un’anima. Non un’anima eletta: l’anima di un uomo qualunque (salvo qualche tentazione didascalica) che va al posto nostro, che vede al posto nostro, e che con parole riferisce. È l’arte perduta dell’araldo, dell’aedo, dello storico, del cuntista, del giornalista di frontiera. E che richiede un’arte altrettanto perduta: l’arte di ascoltare.


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