Mafia, il giudice vuole approfondire Per i Lombardo archiviazione ancora incerta

«Ho sempre creduto nell’innocenza del senatore Mannino. Accolgo quindi con gioia la sentenza della Corte d’Appello che potrà consentirgli di proseguire serenamente la sua attività parlamentare nell’interesse della Sicilia e dei siciliani». Così diceva il presidente della Regione Raffaele Lombardo all’indomani della sentenza – confermata dalla Cassazione nel 2010 – che ha assolto Calogero Mannino – attuale parlamentare nazionale, ex senatore e ministro Dc passato all’Udc – accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza che adesso potrebbe tornare utile proprio al governatore e al fratello Angelo, deputato nazionale Mpa, e di cui si è discusso oggi durante l’udienza stabilita dal gip di Catania Luigi Barone per decidere un’eventuale archiviazione della stessa accusa. Archiviazione richiesta dalla procura e rigettata dal giudice in un primo momento. «Le indagini si intendono concluse e complete – spiega Guido Ziccone, legale di Raffaele Lombardo – ma in un dialogo orale a volte ci si capisce di più che per iscritto». E sono proprio i punti della sentenza Mannino, applicati al caso Lombardo, che adesso il giudice vuole approfondire: basta una richiesta elettorale alla mafia a configurare un reato o serve restituire il favore?

La prima udienza questa mattina è servita solo per stilare un calendario di temi da discutere. La prossima, ancora una volta a porte chiuse, è prevista per il 12 marzo. Non verranno trattati nuovi temi, assicurano le parti, ma soltanto chiariti alcuni aspetti già agli atti e contenuti nelle memorie già depositate. Tre i punti da discutere secondo l’accusa, rappresentata dai procuratori Michelangelo Patanè e Carmelo Zuccaro: l’esistenza e le caratteristiche dei rapporti elettorali tra i fratelli Lombardo e diversi esponenti di Cosa Nostra, l’eventuale rafforzamento dell’organizzazione criminale grazie ai presunti legami con i due e il significato del rancore covato dai boss nei confronti del governatore siciliano. «Un cornuto che non ce n’è», lo definiscono alcuni intercettati. Su tutti, il boss di Ramacca Rosario Di Dio che, in una registrazione, promette di non voler appoggiare mai più il politico. Un risentimento che potrebbe essere sintomo di un mancato accordo oppure di un accordo a metà, non rispettato da Lombardo. In quel caso, secondo la sentenza Mannino appunto, non esisterebbe reato.

Secondo la Cassazione, infatti – che ha confermato nella sostanza la tesi dell’Appello – «la promessa e l’impegno del politico di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa» diventa un reato solo nel caso in cui il «patto elettorale politico-mafioso abbia prodotto risultati positivi, qualificabili in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell’associazione mafiosa». Il «contributo in chiave psicologica» non può essere reato, dicono i giudici. Non basterebbe insomma che Di Dio o gli altri boss si sentissero sicuri di un appoggio di Lombardo per essersi attivati nei suoi confronti durante le elezioni. Servirebbe anche che da parte del governatore fosse arrivato un appalto, un aggancio, un qualunque contro-favore alla criminalità. Un passaggio tutto da provare e che secondo l’accusa – con gli elementi in mano alla procura – non avrebbe retto in sede di giudizio. Da qui la decisione di chiedere l’archiviazione. Discussa e contestata all’interno dello stesso ufficio, perché frutto di uno stralcio della posizione dei due fratelli dall’indagine madre Iblis, che coinvolge altri politici, imprenditori ed esponenti criminali. Un filone separato che metterebbe da parte l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa e già sfociato in un diverso procedimento per reato elettorale, ancora in corso.


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Si è tenuto oggi l'incontro tra le parti per decidere dell'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti del governatore siciliano e del fratello Angelo. La discussione, rinviata al 12 marzo, si baserà sulla discussa sentenza che nel 2010 ha assolto il deputato siciliano Calogero Mannino. All'esame soprattutto il significato del rancore covato dai boss nei confronti del Presidente definito da alcuni di loro «un cornuto che non ce n’è»

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