«Perché non richiederò il reddito di cittadinanza» L’agricoltore etneo che difende terreni e mestiere

«In questo momento, sono praticamente disoccupato. Io e la mia compagna abbiamo fatto qualche conto, e io potrei richiedere il reddito di cittadinanza. Ma non ho alcuna intenzione di farlo: è una questione di dignità». Emanuele Feltri continua la sua battaglia per difendere il suo mestiere e le sue terre. «Io faccio l’agricoltore, è questo il mio lavoro, se accettassi il reddito di cittadinanza dovrei pensare di smettere, lasciare i miei terreni e tutto il sudore che ci ho speso sopra». Trentanove anni, catanese, si è trasferito anni fa in contrada Sciddicuni, a Paternò, in piena Oasi del Simeto. Lì ha cominciato a coltivare agrumi e ulivi e a gestire un piccolo lotto di terre, acquistate dopo avere venduto la sua casa nel capoluogo etneo. I primi problemi sono arrivati subito: le sue pecore sgozzate, i terreni incendiati, gli scarichi fognari gettati nei suoi terreni e la vasca per l’irrigazione rovesciata. Tutto nei primissimi mesi dopo avere iniziato a denunciare pubblicamente la mafia rurale e lo strapotere degli altri proprietari della zona di Ponte Barca. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, Feltri ha messo in piedi una piccola cooperativa di produttori e l’interesse nazionale suscitato dalla sua storia ha fatto sì che in molti si avvicinassero al suo lavoro. «Abbiamo passato, però, due anni di terribile siccità – spiega l’imprenditore agricolo – e dopo sono arrivate le alluvioni. La terra è un ecosistema molto sensibile, noi siamo in ginocchio e chi è nella mia condizione praticamente non guadagna più nulla».

Diventati genitori da poco, Emanuele e la sua compagna, per curiosità, hanno controllato i requisiti tramite i quali si potrà accedere alla misura di sostegno economico a partire da aprile (con richiesta da formulare a partire dal 6 marzo). «Considerato il mio reddito e il mio patrimonio – prosegue Emanuele Feltri – sarei tra i cittadini che possono fare domanda. E sì, sarebbe una boccata d’ossigeno. Ma io ne faccio una questione ideologica e di difesa della dignità del mio lavoro: non ha senso investire capitali statali su una misura che servirà solo a bloccare il mercato del lavoro e che altro non è che assistenzialismo di facciata». L’errore, secondo lui, non è che lo Stato aiuti chi ha più bisogno. Ma come ha scelto di farlo. «Il sostegno a un settore come quello dell’agricoltura deve essere estremamente concreto – aggiunge Feltri – Bisogna intervenire sulle reti di distribuzione dell’acqua, in un mondo in cui i consorzi di bonifica sono in fallimento e il servizio è del tutto inefficiente; bisogna pensare a un prezzo minimo garantito, in modo che i piccoli agricoltori non debbano spendere giornate intere di lavoro per vedersi pagare pochi centesimi; bisogna dare concretamente incentivi all’assunzione regolare dei braccianti e smettere di fare operazioni anti-caporalato utili solo a finire sulle prime pagine dei giornali».

Che senso ha, domanda Feltri, andare all’alba nelle piazze dei paesini per bloccare chi, sui camion, carica i braccianti in attesa di andare al lavoro sui campi? «Così si colpisce sempre l’anello più debole della filiera. Ma quante volte sono stati presi i libri contabili delle grosse aziende, quelle che riempiono il mercato della grande distribuzione, e si è confrontato i contratti che hanno in essere con la produzione che riescono a garantire? È più facile di quanto non si pensi. La situazione del settore è talmente compromessa che il sistema delle vendite va ripensato». Così il governo, anziché di investire fondi a pioggia sul reddito di cittadinanza, «dovrebbe tentare azioni mirate, e su quelle investire gli aiuti di Stato». Dell’agricoltura, però, la maggioranza gialloverde ha parlato anche in altre occasioni. Per esempio con la proposta di donare terreni demaniali, per vent’anni, alle famiglie che arrivano al terzo figlio: «Uno specchietto per le allodole: un terreno abbandonato da tanti anni va riattivato. Ci vogliono anni per renderlo produttivo e anni per vederne i frutti. Con una concessione ventennale, lo perdi dopo averlo risistemato. Senza contare che un nucleo in difficoltà economiche non può avere le risorse per mettere a regime una terra che non dà più frutti».

«Gli agricoltori siciliani come me hanno, al massimo, due, tre ettari e sono tagliati fuori da qualunque incentivo né si possono permettere i magazzini di stoccaggio e vendita. Noi della Valle del Simeto abbiamo provato a resistere consorziandoci, ma le condizioni climatiche ci hanno dato una batosta troppo pesante da sopportare», conclude. «Se mi fosse stato detto che lo Stato era disposto ad aiutarmi per rimettere in piedi la mia attività di coltivazione e raccolta, probabilmente avrei accettato perché avrei sentito che veniva tutelata la mia dignità – chiosa – Ma un sostegno che non dipende dal mio lavoro, dal mio impegno per la mia terra e dalla mia prospettiva per il futuro non posso accettarlo. Dopo tutto quello che ho fatto per Sciddicuni, pensare di doverla lasciare per accettare qualunque altro impiego, per me, è impensabile».


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