Ciancio e la storia del mancato necrologio a Montana Gli «sciacalli» e la lettera della fidanzata su La Sicilia

Una consuetudine antica da un lato e «un caso particolare» dall’altro. La possibilità di fare un’eccezione o la fermezza nel non prestare il fianco a quelle che vennero definite «eventuali polemiche». Alla fine prevalse la strada tracciata da quarant’anni: nella sezione necrologi del quotidiano La Sicilia non si possono esprimere giudizi «di nessun genere». Parole messe nero su bianco nell’edizione del giornale del 3 novembre 1985. Novantotto giorni prima, il 28 luglio, a Santa Flavia, pochi chilometri da Palermo, veniva ucciso da Cosa nostra il commissario di polizia Beppe Montana. Trentacinque anni, originario di Catania, si trovava nel molo di Porticello dopo una giornata in barca trascorsa insieme a un amico. Intorno alle 20.30, quando la fidanzata era andata a recuperarlo in macchina, i killer portarono a termine l’esecuzione dopo essere arrivati a bordo di una Fiat Ritmo. 

A distanza di 34 anni quella storia torna d’attualità nel processo per concorso esterno alla mafia nei confronti di Mario Ciancio Sanfilippo. Imprenditore, ex direttore e proprietario del giornale – attualmente in amministrazione giudiziaria – di viale Odorico da Pordenone. I fratelli del commissario, Dario e Gerlando, rappresentati dall’avvocato Goffredo D’Antona, si sono costituiti parte civile. E agli atti è finito anche il documento della discordia. Un foglietto, presentato all’ufficio necrologi del quotidiano, con cui la famiglia tramite il padre Luigi voleva ricordare i tre mesi dalla morte del commissario, affiancando pure un messaggio di disprezzo «alla mafia e a tutti i suoi anonimi sostenitori». Parole che però sul giornale non sono mai state stampate a causa del rifiuto di Ciancio e dell’allora vicedirettore Piero Corigliano. Per la difesa dell’editore non c’è nessun caso ma solo uno spiacevole equivoco. Una storia piena di punti controversi che dovranno essere analizzati passo passo dai giudici del processo.

Cominciando dal racconto di Dario Montana, sentito come testimone durante l’ultima udienza. «Avevo 18 anni e ho saputo per la prima volta di questa vicenda quando mio padre, tornando a casa, ci disse che il necrologio era stato rifiutato allo sportello. Come testimone c’era un signore che restò basito mentre era in fila. A quel punto mio padre si mise a scrivere una lettera che inviò a tutti i giornali». Il caso diventa nazionale e a casa Montana dopo qualche mese arriva la telefonata di Tony Zermo, giornalista di punta de La Sicilia: «Chiedeva l’eventuale disponibilità a un’intervista ma noi rifiutammo», racconta il fratello della vittima. 

Accorrono gli sciacalli
Sul giornale intanto viene pubblicato un piccolo trafiletto il 5 novembre 1985. Nero su bianco, con il titolo Accorrono gli sciacalli, c’è l’opinione del comitato di redazione, consapevole della linea del giornale riguardo i necrologi ma nello stesso tempo concorde nel fatto che, essendo Montana una vittima della mafia, «poteva essere fatta un’eccezione». Guai però alle strumentalizzazioni. Nel pezzo, in cui si aggiunge la presa di posizione della direzione del giornale, finisce pure il nome di Assia Mezzasalma. Anche lei inconsapevole protagonista di questa storia. La donna, compagna del commissario e presente durante l’omicidio a Santa Flavia, il 28 agosto 1985 firma una lettera-sfogo contro l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. Il giorno successivo, con un secondo articolo, veniva intervistata, sempre per La Sicilia, dal giornalista Tony Zermo

«Signor ministro, troppi politici sono la longa manus della mafia»
Assia Mezzasalma non usa giri di parole, tanto che la direzione del giornale definisce il suo pensiero «al limite del vilipendio alle istituzioni», e nella lettera punta il dito contro l’assenza dello Stato in Sicilia, l’invio dei carabinieri dal Veneto, e soprattutto sulla figura di Scalfaro con la sua gestione del Viminale. C’è poi un passaggio dedicato all’inchiesta sull’omicidio Montana, tolta dalle mani di Ninni Cassarà, dirigente della Squadra mobile di Palermo, poi ucciso da Cosa nostra. «Si prevedeva forse, con raffinata chiaroveggenza, l’assassinio?», scriveva Mezzasalma rivolgendosi sempre a Scalfaro. Questi articoli, per la difesa di Ciancio, testimonierebbero come dietro la mancata pubblicazione del trigesimo non ci sia stata nessuna operazione di censura preventiva. Discorso diverso per la famiglia Montana. Passati 34 anni per il commissario di polizia, che voleva catturare il papa di Cosa nostra Michele Greco, non c’è ancora pace.


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