Il basket etneo tra crisi e passione Parlano i protagonisti Di Piazza e Lo Faro

Sono stati appena festeggiati gli ottant’anni della pallacanestro a Catania. È una strada accidentata, quella del basket sotto il vulcano, da sempre, da quando si giocava nel cortile della casa del Balilla ai recenti tempi d’argento in Serie B2. Due anni fa sono partiti i nuovi progetti che hanno nel Basket Acireale e nella Rainbow Catania i vertici maschile e femminile, ma si stanno ancora mettendo le basi per un futuro migliore. E tra crisi economica e vocazionale è difficile tirare avanti la carretta.

Gabriella Di Piazza premiata da Carmelo Carbone lo scorso luglio (foto di Chiara Borzì)

«Catania vive un problema che non è solo provinciale, ma nazionale». Gabriella Di Piazza è allenatrice da venticinque anni, catanese d’adozione. Conosce a menadito l’ambiente maschile giovanile e quello femminile e proprio per questo sa che il problema principale è «la crisi del reclutamento (più rilevante nella femminile), che potrebbe essere superata con una maggiore capacità di entusiasmare i giovani, attraverso progetti in comune con la scuola, e la capacità di animazione degli istruttori che devono avere voglia di fare e sperimentare».

Anche se in pochi varcano la soglia dei campionati regionali, qualche giovane riesce a emergere. Alcuni progetti degli ultimi anni, anche se spesso con picchi alti e bassi, hanno prodotto alcuni elementi, il cui miglior frutto è la Nazionale italiana Alessandra Formica. Altro cestista del ’93, e una delle sorprese dello scorso anno, è

Federico Lo Faro con la maglia del Paternò lo scorso settembre (foto di Roberto Quartarone)

Federico Lo Faro, esordiente quest’anno in DNC, la quinta serie siculo-calabra, con Paternò. «Mi rammarica dirlo ma non vedo segnali positivi dal basket catanese – ci spiega –. La prima società della città è il Cus Catania che sta affrontando un campionato di C2 di bassa classifica e questo, penso, dovrebbe far riflettere parecchio!»

«La collaborazione fra società – prosegue il play-guardia –, che sembrerebbe la soluzione più semplice, non ha portato nessun risultato, non so se per la cattiva gestione o per la scarsa partecipazione». Be’, questa è un’altra nota dolente storica: per anni si è affrontato i campionati divisi, con due o più squadre che raramente tentavano di unire gli intenti, e quando si sono tentate delle sinergie (fusioni no, difficilmente si è arrivati a tanto) sono durate lo spazio di poche stagioni. «Bisogna uscire dal proprio orticello – prosegue la Di Piazza – trovare una convergenza di intenti su progetti comuni».

Per convergere su progetti comuni, in più, bisogna avere anche le risorse necessarie per portarli a termine. E queste risorse, quando ci sono, finiscono in fretta perché spesso è mancata la “sostenibilità”, la capacità di affidarsi agli elementi cresciuti in casa più che a soldati di ventura e mestieranti che passano in fretta. «La mia speranza – confida Lo Faro – è sempre quella che venga attuato un progetto ambizioso e duraturo. Al momento non credo che ci sia una sola società che si stia applicando in tal senso, e anche quando una società ci prova non ha la forza economica di attuarlo. Due sole squadre che disputano un campionato nazionale – Acireale e Paternò – ne sono la prova».

Mancano anche gli aiuti dall’alto. Mentre una volta i contributi regionali e comunali sostenevano bene l’attività, oggi lo sport non solo non ne riceve più, ma deve anche pagare per i palazzetti pubblici con l’acqua fredda, e spesso lottare contro una Federazione che poche stagioni fa ha introdotto i «parametri per i nuovi atleti svincolati». Nati come metodo per stimolare l’attività giovanile, hanno finito per tagliare le gambe a quella senior, costringendo ogni anno molti 21enni ad appendere le scarpe al chiodo perché se non possono più continuare a giocare con la società che li ha cresciuti, non ne trovano un’altra disposta a pagare cifre molto alte (quest’anno 1.200 euro per la C2, 300 per la D) per tesserarli.

«A questo aggiungiamo – conclude la Di Piazza – la necessità dello sblocco delle annate sulla limitazione delle atlete giovani a partecipare a più campionati. Ad esempio quelle nate nel 1998, 1999 e 2000 possono disputarne solo due. Capisco che sia importante non fare giocare una 1999 nell’Under-19 , ma perché una 2000, se pronta, non può fare l’Under-15? Ci vorrebbe più elasticità da parte della Fip, sentendo la base». E, a volte, il dialogo e la comunicazione sono proprio ciò che più manca.

[Foto di Turi Lanzafame]


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