Iblis, La Causa ancora su Santapaola jr Scambio di dolci, arancini e pizzini al 41 bis

«E’ un bugiardo, ma non s’affrunta?». «Dicono che ora c’è un altro mafioso che come lui si sta pentendo». «Vabè, ma non è ca si penti subbito subbito, passa tempu». Il protagonista, anche ieri in collegamento con l’aula giudiziaria del carcere di Bicocca, è ancora lui, Santo La Causa. Ex esponente di spicco del clan Santapaola, oggi collaboratore di giustizia e testimone nel processo Iblis sui presunti intrecci tra mafia, imprenditoria e politica etnee. Tutti parlano di lui: gli imputati presenti, i loro familiari, gli avvocati. Gli stessi, questi ultimi, che ieri hanno rivolto al pentito le loro domande in un fitto contro-esame. Lungo sei ore, tra urla, accese battaglie verbali tra accusa e difesa e la calma serafica del collaborante. Che ha aggiunto con i suoi racconti ancora altri dettagli sul ruolo di Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto, in Cosa nostra etnea e sui loro rapporti.

Gran parte del contro-esame di La Causa è stato infatti condotto dai legali dell’illustre imputato, Francesco e Giuseppe Strano Tagliareni. Un fiume di domande, spesso nervose e impazienti, tutte mirate a ridimensionare il ruolo del proprio assistito descritto da La Causa: «Il capo, che tutti cercavamo di tenere coperto – spiega il pentito – In pochi sapevamo che a guidare la famiglia era Vincenzo Santapaola e lui ci metteva la faccia solo quando ce n’era necessità». Qualcuno quindi lo sapeva, eppure nessuno dei più di cinque collaboratori di giustizia ex esponenti del clan etneo ha mai parlato di lui come del vertice della famiglia, sottolineano i legali. Ad essere indagata dagli avvocati è quindi la reale conoscenza e frequentazione di La Causa con Santapaola jr. Se quest’ultimo era il capo e dava gli ordini, il pentito dovrebbe conoscerlo bene.

Così La Causa racconta della carcerazione insieme a Parma. Entrambi facevano parte della ventina di detenuti al carcere duro, divisi dalla direzione in gruppi di sei o sette per trascorrere «il passeggio» insieme. In qualche caso, i due capitavano insieme, ma non parlavano mai di cose che riguardavano l’organizzazione: «Perché c’erano sempre le telecamere». La Causa racconta di quando Vincenzo Santapaola gli tirava attraverso le sbarre della cella – proprio di fronte a quella del collaborante – «dei pacchettini con i dolcetti fatti da lui». Con, ogni tanto, qualche messaggio in mezzo. Oppure di quando il figlio di Nitto gli passava la spesa per fare gli arancini. «Presidente, ma lei se l’immagina questo passaggio di due al 41 bis?», chiede Giuseppe Strano Tagliareni. «No, avvocato, perché io al 41 bis non ci sono mai stato», risponde il presidente del tribunale Rosario Grasso.

Scene di vita quotidiana, «per me che sono stato tutta la vita in carcere», ma che non convincono i legali di Santapaola jr. Che intendono indagare anche i reali motivi del pentimento di La Causa e dei suoi racconti. «Cosa ha chiesto in cambio?», chiedono al collaboratore, tirando per la giacchetta i pm – Agata Santonocito Antonino Fanara – che lo hanno interrogato. «Solo quello che prevede la legge – si altera Fanara – Piuttosto, se vuole, gli chieda quanto prende al mese». «E’ mio diritto avere dei dubbi sulla limpidezza del pentimento del collaboratore. Che abbia degli interessi?», insiste il legale. «Se ci fosse qualche accordo sotto banco, non glielo direbbe – taglia corto il presidente – Il resto è legge». Ma La Causa risponde: «Io non ho mai chiesto niente. Che poi il contratto di collaborazione preveda qualcosa, è un altro discorso».

Una risposta di poche parole, rara nei racconti del pentito. Di solito così dettagliato da aggiungere più di quello che gli viene richiesto. «Lei è l’avvocato Strano Tagliareni, giusto?», chiede a un certo punto. Risposta affermativa. «C’era un pensiero (di omicidio ndr) pure per lei». «La ringrazio del pensiero», non si scompone il legale. Si va avanti così per ore. Eppure la domanda resta sempre la stessa: come mai nessun’altro ha mai parlato del ruolo di Vincenzo Santapaola? La Causa, anche in questo caso, risponde secco: «Gli associati si ricordano ancora di quando per mezza parola ci si ritrovava incaprettati nel cofano di una macchina. Certo, allora Enzo Santapaola era un bambino. Ma oggi è il capo e sempre Santapaola fa di cognome».

[Foto di Fiore S. Barbato]


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Di nuovo una lunga giornata di racconti per l'ex esponente del clan etneo oggi collaboratore di giustizia. Sei ore di contro-esame da parte delle difese, tra cui soprattutto quella del figlio di Nitto, il vero capo della famiglia catanese secondo il pentito. «Come mai nessun'altro ne ha mai parlato?», si chiedono i legali. «Perché tutti si ricordano di quanto bastava mezza parola per ritrovarsi incaprettati. Il cognome è sempre quello», risponde il collaborante. Che racconta la vita quotidiana dei due, compagni di carcere duro a Parma e non solo

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