Muos, un caso diplomatico tra Italia e Usa? Andò: «Crocetta come Craxi, non ha paura»

Nella segreteria politica della sua cittadina d’origine, Giarre, ci sono i ricordi di una vita. Le foto con Bettino Craxi e Giuliano Amato, i manifesti del vecchio partito socialista con la dedica scritta a mano del leader maximo «Ai socialisti catanesi». Le immagini della parata militare in cui sfilava accanto all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e poi un grosso piatto di terracotta con il garofano rosso, simbolo del socialismo, appeso alla parete. Perché Salvo Andò, esponente di punta del P.S.I. e ministro della Difesa nella stagione della stragi di mafia, tra il giugno del 1992 e l’aprile del 1993, socialista non ha mai smesso di esserlo.

Personaggio controverso, che negli anni passati ha dovuto affrontare diversi processi: indicato da alcuni pentiti di Cosa nostra come uomo di riferimento del clan Santapaola a Catania, è stato accusato dalla Procura etnea di voto di scambio nelle elezioni per la Camera del 1983 e del 1987. La Cassazione nel 2000 lo ha assolto con formula piena: «il fatto non sussiste», scrissero i giudici nella sentenza. Le testimonianze dei pentiti Maurizio Avola, Claudio Samperi, Giuseppe Grazioso, Giuseppe Pulvirenti e altri ancora, su cui si basava l’accusa, vennero ritenute «vaghe e generiche, riferite de relato e prive di riscontri oggettivi». Andò fu invece condannato in primo grado per una vicenda di tangenti nella costruzione del centro fieristico Le Ciminiere di viale Africa a Catania. Processo che si concluse con la prescrizione nel 2004, anche grazie alle attenuanti generiche. Da ministro della Difesa fu l’artefice dell’operazione Vespri Siciliani all’indomani delle stragi del ’92 e resta uno dei protagonisti di una stagione, quella degli anni ’80, in cui l’Italia cercò di ritagliarsi uno spazio più autonomo nello scacchiere internazionale. Un quadro in cui il momento più complicato fu sicuramente la crisi di Sigonella e la ferma opposizione di Craxi al presidente americano Ronald Reagan. CTzen ha parlato con lui per capire meglio le analogie e le differenze con le tensioni attuali tra Italia e Usa legate al Muos di Niscemi.

Andò, oggi il Muos rischia di far esplodere un nuovo caso diplomatico tra la Sicilia e gli Stati Uniti. C’è un altro presidente che si è schierato contro i piani americani. Vede delle analogie tra il governatore Rosario Crocetta e Bettino Craxi?
«Sul piano del carattere qualche analogia c’è, ma la situazione è completamente diversa. Negli anni di Craxi gli Usa erano un alleato importante, rappresentavano un grande ombrello che proteggeva tutto l’Occidente dalla minaccia comunista. Oggi quel mondo non esiste più. Sul piano politico, invece ritrovo nei due lo stesso modo di intendere gli interessi del territorio e la sovranità nazionale, che per entrambi viene prima di tutto. Craxi non aveva e Crocetta non ha paura di nulla, non va col cappello in mano a chiedere un nullaosta a qualcuno».

Che idea si è fatto del caso Muos?
«Si tratta di una questione estremamente delicata ed emblematica. Il Muos si trova dentro un’area protetta e quindi bisogna avere attenzione e cura particolare nel momento in cui si insediano impianti che presentano rischi per l’ambiente e di danno biologico. Inoltre c’è un problema di metodo: le popolazioni devono essere adeguatamente informate e correttamente persuase. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una vicenda che vede contrapposte tesi diverse. Non si può dire che l’opinione prevalente è quella del non rischio, perché in questa materia anche se ci fosse una remota probabilità di rischio bisogna tenerne conto e comportarsi di conseguenza. Ha fatto bene la Regione a porre uno stop per acquisire dati che diano una ragionevole certezza sul carattere innocuo dell’impianto».

Quali sono le reali possibilità della Regione di bloccare l’impianto? Si rischia un conflitto di attribuzioni con lo Stato?
«L’ipotesi è fondata. Si tratta di attività che rientrano nell’esecuzione di trattati e la Regione in questa materia non ha competenza, non può interferire con scelte di politica estera o militare del Paese».

Se si dovesse arrivare davanti alla Corte Costituzionale che scenari si aprono?
«Qualcosa sta cambiando in questa materia. Al tempo degli Euromissili vi è stata in Germania una causa davanti alla Corte Costituzionale promossa da soggetti che eccepivano il diritto alla salute e dicevano che impianti come gli euromissili costituivano un rischio alla salute perché c’era il pericolo di essere colpiti. Uno strumento di difesa-offesa può essere soggetto alla reazione o alle iniziative offensive di un altro strumento di difesa-offesa. È compatibile questa decisione politica con il diritto alla salute? In quel caso quindi non era un problema di conflitto di attribuzione tra due organi istituzionali. La corte costituzionale tedesca si espresse con una sentenza salomonica. In pratica disse: non posso entrare in questa materia perché si tratta di decisioni politiche, non soggette al controllo di questo organo; appartengono a una sfera di competenza non aggredibile attraverso la giurisdizione costituzionale».

Potrebbe verificarsi una situazione simile nel caso del Muos?
«Il nostro sistema non prevede il ricorso diretto alla Corte costituzionale per la difesa dei diritti. Dovrebbe essere un incidente di costituzionalità promosso durante un giudizio. Oppure può ricorrervi la Regione, ma sollevando il conflitto di attribuzione, in base alla destinazione d’uso dell’area protetta. Se si arriva a questo punto diventa una situazione molto ingarbugliata. Credo che la pausa di riflessione decisa dal governo ci metta nelle condizioni di acquisire più informazioni. Inoltre il comportamento delle autorità americane mi sembra che sia stato di dialogo».

Come eccepito dagli attivisti tedeschi, oltre al rischio ambientale, esiste un rischio per la sicurezza? Niscemi può diventare un obiettivo sensibile per chi volesse attaccare gli Usa o l’Occidente?
«Oggi, finito il conflitto est-ovest, il Mediterraneo è l’epicentro della minaccia. Non penso tanto al terrorismo, ma nell’area mediterranea allargata ci sono Paesi che si stanno attrezzando con il nucleare, o Paesi che sono amici di Paesi che vogliono il nucleare. La comunità internazionale percepisce il Mediterraneo come una delle principali fonti di minaccia: il conflitto arabo-israeliano, i cambiamenti rapidi e importanti sulla sponda sud che potrebbero generare conflitti seri, la situazione siriana, tenendo conto dei rapporti tra Damasco e Tehran, sono tutti focolai di tensione».

Se volessero colpire da qualche parte, la Sicilia si ritrova in casa diversi obiettivi sensibili.
«Sì, ma rappresentano anche una protezione tenuto conto di quanto sta succedendo. Ricordiamo il missile scagliato da Gheddafi su Pantelleria. Rispetto ad allora si sono fatti molti passi avanti nei sistemi d’arma e ci sono Paesi, come l’Iran, che sul piano della minaccia possono costituire un soggetto particolarmente attivo. All’epoca degli Euromissili si contrapponevano due tesi: attraggono conflitti o li prevengono? Resta il fatto che dopo gli euromissili si è aperto il disgelo e si è avviato un processo di disarmo bilanciato molto serio. Oggi è diverso: per poter avere un sistema di dissuasione efficace bisogna che i due antagonisti siano equivalenti. Di fronte agli Stati Uniti qual è il blocco antagonista equivalente? Ci può essere un mondo antagonista, cioè i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e il fondamentalismo islamico. Ma non rappresenta un’alternativa agli Stati Uniti. Manca qualcuno che si metta alla testa di questo mondo e la Cina non diventerà mai la guida del fondamentalismo islamico».

Se pensiamo alla crisi di Sigonella, ma anche all’approccio al conflitto israelo-palestinese, le scelte di Craxi in politica estera si dimostrarono spesso libere dai diktat americani. I governi successivi hanno continuato su quel solco o ritiene che adesso siamo meno indipendenti?
«L’Italia ai tempi di Craxi aveva una politica mediterranea. L’Italia dopo Craxi e Andreotti non ce l’ha più avuta. E soprattutto non ha avuto più un peso tale da riorientare l’Europa verso sud. L’Europa ha sviluppato, sotto la spinta tedesca, una strategia di attenzione verso i paesi dell’Est, ma si è sempre più disimpegnata nei confronti del Sud: è fallito il processo di Barcellona, così come l’unione del mediterraneo. Ci fu un conflitto quando si è trattato di allargare l’Unione a Spagna e Portogallo. La signora Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990 ndr) aveva posto il veto, Craxi propose di votare lo stesso per vedere la posizione degli altri Paesi. La Thatcher risultò isolata, il veto giuridicamente era insuperabile, ma politicamente era invece in qualche modo superato dalla posizione comune degli altri stati. Alla fine Spagna e Portogallo entrarono nell’Ue. Di queste azioni, tese a difendere la mediterraneità dell’Europa, non ne abbiamo più avute. Nella primavera araba l’Italia non ha giocato nessun ruolo».

La Sicilia quindi è destinata ad essere sempre il cortile di gioco degli Stati Uniti?
«Gli Usa negli ultimi anni hanno avuto un atteggiamento nei confronti del Mediterraneo molto diverso. Bush con le sue guerre per la democrazia ha cercato di imporre un ordine internazionale basato sulla centralità americana, giustificandolo addirittura come un disegno della Provvidenza. Ma con Obama credo che la presenza degli Usa sia meno forte. I neocon teorizzavano il conflitto di civiltà come inevitabile, Obama al Cairo spiegò perché agli Usa invece conveniva portare avanti la politica della mano tesa».

Però sotto Obama si realizza il Muos, si rafforzano la base di Trapani Birgi e la politica dei droni.
«Ci possono essere mutamenti di orizzonte nella politica estera americana, ma non ci sarà mai un presidente che smantella il sistema difensivo Nato. Forse andiamo verso un riorientamento della Nato, non più come alleanza difensiva, ma come sistema di sicurezza a disposizione delle Nazioni Unite. L’impiego della Nato nelle operazione di peacekeeping risponde a questa logica. La Sicilia è una portaerei, una piattaforma al centro del Mediterraneo e in questo quadro rivestirà sempre un ruolo strategico. Tuttavia se alcune partite si chiudono, se la primavera araba porterà a democrazie stabili, se la questione siriana si risolve, se il conflitto araboisraeliano trova una via d’uscita attraverso l’eliminazione degli insediamenti israeliani nella striscia di Gaza, qualcosa può cambiare e di conseguenza muterà anche il valore strategico della Sicilia. Il problema è far capire da parte americana ad Israele che non può osare più di tanto».

Tornando al Muos, la decisione di realizzarlo non è mai passata dal Parlamento. La ritiene una dinamica normale?
«Può darsi che si interpreti come atto esecutivo del trattato bilaterale Italia-Stati Uniti del 1954. In questo caso è una prassi, perché non è un trattato ai sensi dell’articolo 80 della Costituzione (prevede il passaggio alla Camera dei trattati internazionali di natura politica ndr)».

Crede che l’opinione pubblica possa giocare un ruolo decisivo?
«Mi sembra che l’opinione pubblica sia molto più distratta di quanto non lo fosse negli anni ’80, quando la società politicizzata viveva con la giusta enfasi situazioni che potevano portare alla guerra. Oggi, in una società spoliticizzata, non ci sono più partiti con la stessa autorevolezza e capacità di comunicazione. Il movimento per la pace fu una cosa molto importante e seria, che contestualmente ha mobilitato grandi masse in tanti paesi europei e fuori dall’Europa. Oggi è impensabile la nascita di un movimento di quel tipo. Presuppone una forte domanda di partecipazione politica, una visione generale delle cose».

Eppure un gruppo di attivisti è riuscito a portare la questione Muos alla ribalta nazionale.
«È vero, ma la cosa che ha dato più evidenza sociale è stata la sortita di Crocetta. Se pensiamo alla contestazione per gli Euromissili a Comiso, le cose erano ben diverse e la cittadina ragusana era costantemente sulla ribalta nazionale grazie ai pacifisti».


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