Covid, l’esordio da medico dei giovani chiamati nelle Usca «Turni di lavoro sfiancanti. Ritardi? Siamo troppo pochi»

Turni di 12 ore al giorno, vita privata completamente annullata, tamponi ogni cinque giorni. Ansia, preoccupazione per i familiari, mani screpolate a furia di disinfettarle. Stanchezza, ritmi a volte insostenibili. Da poco più di un mese i medici siciliani sono tornati in trincea per la seconda ondata di Covid. Giovani, alcuni giovanissimi. Appena laureati o abilitati. Tra un turno e l’altro ci raccontano quella che per molti rappresenta la prima esperienza lavorativa da dottori.

«Ho finito la nottata in guardia medica, sono passato da casa per accudire il cane e alle 9 ero già operativo per lavorare», dice Francesco Reina, 29 anni, laureato nel 2016 e quasi specializzato in medicina generale. In questi anni ha lavorato come medico di guardia in cliniche e aziende private, ma con la nuova ondata Covid è entrato nelle Usca – Unità speciali di continuità assistenziale – e oltre ai turni in guardia medica adesso segue anche il lavoro di queste squadre. «Giro tra Catania, Librino, Misterbianco, Motta Sant’Anastasia, San Nullo e dintorni, visitando anche più di quindici o venti abitazioni al giorno». Non c’è un target preciso di persone a cui si fanno i tamponi. «Ci sono gli anziani e i cinquantenni, così come bambini e ragazzi della mia età, trentenni. Quello che ho notato è che nei quartieri dove le persone sono abituate a stare molto insieme si creano più focolai».

Giulia Galatà ha 32 anni, si è laureata a Catania il 24 marzo 2020 e ha ottenuto l’abilitazione il 31 luglio. Il 20 ottobre è entrata nell’Usca scuole di Acireale. Ma se le si chiede da quanto tempo le sembra di lavorarci, risponde «da almeno un paio di anni». Quando sono usciti i bandi ha fatto richiesta ed è stata mandata a lavorare nel distretto Asp di Acireale, che comprende tutti le Aci, da Acicastello ad Acitrezza, da Aci Sant’Antonio ad Acireale, fino a Santa Venerina, Fleri, Zafferana. «Mi sveglio tutte le mattine alle 6, alle 7.30 sono già a lavoro e vedo cosa c’è da fare quel giorno – racconta -. Controllo le mail di segnalazione dei casi postivi nelle scuole, organizzo il drive-in di controllo per tutta la classe, andiamo a fare i tamponi agli studenti che presentano qualche sintomo o nelle case, ci occupiamo del follow up dei pazienti che sono a casa in quarantena per sapere come stanno, facciamo le visite domiciliari come supporto alle Usca normali».

Le Usca scuole sono formate da otto medici, mentre quelle normali ne contano una ventina. Anche se non sono abbastanza. «Facciamo anche tredici giorni di fila di lavoro, di 12 ore al giorno, senza giorno di riposo. E in quel giorno ti ritrovi talmente tante cose da fare che non ti riposi per niente. E ricominci più stanco di prima. Quando finisco il turno – continua Giulia – mi spoglio, metto tutti i vestiti in una busta e quando arrivo nella casa accanto a quella dei miei, dove mi sono spostata, li metto in lavatrice con il disinfettante. Le scarpe ovviamente restano fuori, sono tutte precauzioni per tutelare la mia famiglia».

La cosa che la spaventa di più in tutto questo tran tran? «I positivi che vanno in giro consapevoli di avere il virus e di contagiare gli altri. Anche entrare nelle case dei positivi fa paura, anche se stiamo sempre molto attenti. Ma ogni giorno torni a casa con l’ansia pensando “e se l’ho preso?”». Spesso c’è da fare i conti con i reclami di chi ritiene che il servizio gestito dall’Asp sia lento, dal momento della notifica della positività all’effettuazione del tampone. «Non si capisce che siamo pochi e dobbiamo pensare a tantissimi pazienti», commenta la giovane medica. Giulia si è letteralmente buttata in questa esperienza, l’Università non prepara ad affrontare questo tipo di situazioni e anche i video di formazione si limitano a mostrare come si ci lava le mani. Ma non è sufficiente. «Per fortuna la direttrice del centro di Acireale e il capo reparto ci hanno istruito molto bene e c’è grande collaborazione tra noi. È fondamentale, perché senza la squadra non si regge».

Anche Germana De Agrò, 24 anni, e Piero Fichera, 25 anni, sono freschi di laurea. La proclamazione online lo scorso luglio, con la prima sessione di laurea abilitante, poi a settembre il test per la specializzazione, che prevede la presa in servizio per il 30 dicembre. «Per tenerci occupati in questi mesi abbiamo fatto domanda per lavorare e siamo stati assegnati all’Asp di Catania per occuparci dell’emergenza territoriale nell’area di Palagonia, che comprende Scordia, Militello, Palagonia, Raddusa, Castel di Iudica e Ramacca», spiega la giovane coppia di neo-medici, che si è trasferita nella casa di famiglia a Scordia. Buona parte del lavoro è burocrazia, poi lavorano molto con le Usca scuole e Piero ha voluto provare anche qualche servizio domiciliare a supporto. Non si sentono eccessivamente in pericolo, ma l’attenzione non è mai abbastanza quando ci si veste e ci si sveste. «Di certo non mi aspettavo che il mio primo lavoro da medico sarebbe stato questo – dice Germana, che sogna di diventare pediatra – ma l’approccio è molto graduale se si pensa, per esempio, a una guardia medica dove può arrivare un paziente con un infarto e devi gestire tutto».

Pietro invece vorrebbe fare carriera nel settore della chirurgia plastica, ma per ora anche lui è in prima linea. «Questa emergenza ha portato alla luce il fatto che medici, infermieri e professionisti sanitari ci sono ma non vengono trattati adeguatamente. E quando, tra un mese, entreremo in specialistica verranno meno circa duemila medici». Da contratto dovrebbero lavorare 36 ore a settimana, ma ne fanno anche più di 50. «In Sicilia molti prendono la situazione sottogamba, mentre chi sta fuori, magari solo, la vive in modo diverso», dice. «Quello che vediamo in tv e quello che noi stessi viviamo sul campo è solo la punta dell’iceberg – aggiunge Germana -. Tutte le persone che la prendono in modo superficiale non capiscono che la situazione è sconcertante. Quando ho cominciato a lavorare, il 27 ottobre, c’erano 150 persone in monitoraggio e ora sono 950. E parliamo di paesi piccoli. Quindi sarebbe il caso che i miei coetanei stessero di più a casa e indossassero sempre la mascherina quando escono, per evitare – conlcude – che la situazione diventi veramente ingestibile». 


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