Da New York a Catania, l’emigrazione inversa di Michael «Amo davvero la vita qui, ma è il lavoro a entusiasmarmi»

Un americano in vacanza. Solo che poi è rimasto. Volendo riassumere, si potrebbe condensare così la storia di Michael Xenakis, 30 anni, e della sua emigrazione al contrario, da New York a Catania, per lavorare nell’azienda etnea Flazio. Anzi, proprio per portare negli Stati Uniti la piattaforma che permette di realizzare e gestire siti web in maniera autonoma, anche per chi non conosce la programmazione. Arrivato in città a ottobre, compatibilmente con le regole per arginare la pandemia da Covid-19, appena può salta in sella alla sua moto e se ne va in giro alla scoperta della Sicilia orientale. Trovando anche il tempo per imparare il catanese, perché «alla fiera me l’hanno detto subito: se non lo imparo, mi prenderanno sempre in giro. E infatti già il prezzo della spesa si è dimezzato», racconta ridendo. Un’ironia che, insieme al suo buon italiano, è già presupposto di integrazione.

Facciamo un passo indietro nella storia. Che vita facevi a New York?
«Io a New York ci sono nato e cresciuto. Poi ho studiato Economia in California, e sono tornato in città per lavorare come consulente di sviluppo aziendale e marketing. In pratica mi occupavo di prendere un prodotto e renderlo appetibile per un mercato più ampio. Questo comprende anche il branding, fondamentale in un Paese come gli Stati Uniti dove si compra per moda. Io dico sempre che lì la gente vota col dollaro: si sentono valorizzati se spendono per una cosa hot. In Italia, invece, ci sono tendenze diverse e soprattutto un diverso rapporto dei cittadini con il proprio denaro».

Come entrerà questa differenza culturale nel tuo lavoro?
«Io non devo solo tradurre Flazio per il mercato statunitense, devo rendere il prodotto per una cultura e un’immaginario diversi. Ho un’amica che è vicepresidente di una grande azienda di marketing a Boston; ci sentiamo ogni settimana e mi racconta di come sia difficile comunicare con un suo grande cliente italiano che vuole sbarcare negli Usa. A lui piace un nome, lei lo boccia, e si sente rispondere: “Ma tu che ne sai?”. Ma come che ne sa? Noi siamo americani, è ovvio! Questo è un po’ un vizio degli italiani: avete dei prodotti fatti benissimo ma li svendete, non sapete valorizzarli, non capite che quello che per voi può essere normale, altrove è eccezionale».

Considerate anche tutte queste differenze, come ci sei finito a Catania?
«Ero a Roma a lavorare per le Nazioni unite. Quest’estate, da bravo americano, sono andato in vacanza a Stromboli. Un mio amico, con cui ho fatto dei viaggi in moto, aveva parlato di me a Flavio (Flavio Fazio, fondatore di Flazio, ndr) e ci ha messi in contatto. Lui mi ha chiamato, mi ha raccontato dell’azienda e dei progetti e mi è piaciuto tantissimo. Per un ragazzo giovane lavorare in un ente pubblico a Roma non è stimolante, c’è troppa burocrazia. Io sono americano ed economista, a me piace fare. Qui sono country manager per gli Usa, è entusiasmante dover prendere un prodotto, organizzare tutto per il suo lancio nel mio Paese e farlo con una squadra di ragazzi che hanno voglia di crescere».

Ma com’è che conosci così bene l’italiano? Persino venato da accenti vari.
«Non ho mai studiato davvero la lingua, l’ho imparata a Roma frequentando solo amici italiani. Poi leggevo libri e giornali per mia curiosità, mi sono appassionato al latino volgare… Però, lo ammetto, non ho mai imparato il congiuntivo».

Peccato assolutamente perdonabile e condiviso con tanti italiani madrelingua. Come ti trovi qui?
«L’accoglienza siciliana mi ha rassicurato. Anche se sono lontano dalla famiglia e dagli amici, basta scendere al bar a prendere il caffè che tutti mi salutano e chiacchierano. Ho subito pensato: “Matri, questo mi piace!”. E poi i posti sono spettacolari. Negli Usa, se vuoi fare qualcosa di carino nel weekend, devi prendere un biglietto aereo e andare a Miami o a Los Angeles. Io qui, con la mia bicicletta, in dieci minuti sono ad Aci Castello e in 15 ad Aci Trezza, mangio il pesce a Brucoli o passeggio sull’Etna».

Lo fai sembrare facile. Ma la tua famiglia non si è stupita?
«Io sono il più piccolo di tre fratelli e i miei genitori sono ormai abituati. Mio fratello fa il broker e vive a Bali da 13 mesi; mentre mia sorella è una docente del dipartimento di Matematica in Pakistan. Quando ho detto a mia madre che questa estate andavo a Stromboli, l’ho rassicurata che sarei tornato dopo qualche mese. Il commento di mio fratello è stato: “Sì, vabbè, qualche mese… Vediamo”. Comunque mamma dice sempre di seguire i miei sogni, anche se poi le manco; mentre papà, che è stato project manager di grandi banche a New York, rimane più pragmatico con il suo “Basta che guadagni“».

Cosa ti ha colpito, nel bene o nel male, di Catania?
«Sto ancora aspettando di provare la vita notturna di cui tanto mi hanno parlato. In realtà, se penso al mercato o alla vita nei bar non mi sembra così diversa da Roma. Però la gente è incredibile. Sabato sono andato alla scogliera e c’era una donna, avrà avuto circa 80 anni, stava in bikini in una vasca naturale. L’ho salutata, ho chiesto come andava e lei mi ha risposto “Gioia, la luce è vita”. Queste sono perle! Pensandoci adesso, forse via Plebiscito è unica. Poi ci sono i bambini che vanno a scuola e che incontro la mattina quando vado a correre o in bici: mi sono innamorato di loro, sono degli adorabili monelli».

Ma come trovi il tempo di fare tutte queste cose?
«Tanta gente sottovaluta quanto tempo c’è nella vita. Magari si passano ore sui social, immagina se se ne usasse anche solo una al giorno per suonare il pianoforte».


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