La storia della conceria di don Corrado Marano

Oltre gli archi della ferrovia, tra gli odori e i colori della pescheria, inizia la via Cristoforo Colombo. Denominata, fino al 1830, strada del Serraglio Vecchio, conosciuta anche come strada delle Concerie e strada del Macello. A eccezione dell’intersecazione con la strada del Gallazzo (odierna via Plebiscito) e di Botte dell’Acqua (oggi via Cusmano), l’arteria finiva tra le lave della scogliera, quasi sul mare, dove oggi ha sede la società Catania Rete Gas, un tempo Asec.

In pratica, la periferia di Catania si esauriva poco oltre il vico Villa Scabrosa e la via Stella Polare dove emergeva, potente, la colata del 1669. Poco oltre, un crocevia immetteva nella strada antica del principe (oggi via del Principe) e portava dritto al vecchio cimitero, situato vicino al mare, nei pressi del vecchio faro oggi non più esistente. Lungo la strada del Serraglio Vecchio si trovavano il macello con gli ammazzatoi, le concerie, le fornaci, e anche coloro che lavavano gramigna, stagionavano botti, salavano sardine, riparavano reti, lavavano panni e lasciavano al sole pesci morti e a volte anche putrefatti. Queste attività sono ancora vive nel ricordo, grazie ai nomi delle strade di questa sorta di area industriale”: Serraglio Vecchio, Macello, Concerie, Fornaciai.

Una menzione particolare merita la via Marano che individua il più prestigioso stabilimento per concia delle pelli esistente a Catania. Il signor Corrado Marano, insignito della medaglia d’oro dal Real Istituto d’Incoraggiamento per la qualità dei suoi prodotti (cuoiami per selle, finimenti di cavalli, suole e guanti), si era impegnato nella ricerca di tecniche per migliorare la concia delle pelli con l’impiego della seconda scorza del sughero, arrivando alla sperimentazione della suola impermeabile all’acqua nel 1836. La qualità delle sue pelli frenò l’esterofilia della fumosa nobiltà siciliana: un guanto di Marano, nelle eteree dita di una marchesa, poteva suscitare la curiosità o l’invidia della baronessa e miracolava, snellendole, le dita grassocce della contessa, rendendole più seducenti dentro la schermatura di pelle. Le concerie sprigionavano sgradevoli odori ed erano fonte d’inquinamento delle falde acquifere e ricettacolo di microbi e perciò confinate in una periferia fatta di angusti quartieri, articolati in strette viuzze dove la mancanza di strade basolate alimentava l’accumulo di ogni genere di immondezza che fosse sterco animale, creta degli stazzonai, sangue o materiale scaricato dalle macellerie o lordure liquide gettate da botteghe, finestre e terrazze. 

Nella conceria di Corrado Marano si lavorava otto mesi l’anno, poiché col freddo il processo di concia subiva un rallentamento con effetti antieconomici. Le pelli bovine e agnelline arrivate dall’isola e da «fora regnu», dopo un’immersione in acqua di due tre giorni per liberarle dal sangue e da altre impurità, si trasformavano dapprima in trippa e, con la concia, in cuoio e prodotto finito. Una volta effettuato il lavaggio che serviva a rimuoverne i peli ed eliminare il grasso naturale, le pelli fresche o essiccate sotto sale, erano immerse nei calcinai e, a contatto con il latte di calce, venivano mescolate insieme al prezioso solfuro di sodio, che serviva ad accelerare il processo, per far gonfiare la pelle. Il momento topico era quello in cui si intingeva un dito nella vasca e, con il palato, si verificava il grado di acidità dell’acqua.

La mancanza di strumenti di misurazione e la non conoscenza della correlazione scientifica tra il Ph (acidità) della soluzione e la qualità della concia imponeva a don Corrado l’utilizzo sensoriale delle papille gustative, era così bravo che azzeccava sempre l’acidità giusta per ottenere una pelle morbida anche dopo la strizzatura. A causa di ciò l’aria si caricava di maleodorante ammoniaca, e questo avveniva per circa otto mesi l’anno, situazione peggiorata dal riutilizzo dell’acqua che conteneva anche residui di materia organica e prodotti di putrefazione, allo scopo di decalcinare le pelli. Durante l’inverno don Corrado Marano faceva incetta di sterco di cane, mai sufficiente per via della concorrenza, sguinzagliava per rimanere in tema, uomini di fiducia che andavano alla ricerca del prezioso materiale necessario che serviva a ottenere una pelle rilassata, flaccida, morbida e setacea sulla quale poi, egli avrebbe pressato il dito per verificarne la nitidezza dell’impronta. Tale trattamento eliminava dalla pelle gli ultimi residui di impurità, detriti organici, grassi e pigmenti e, grazie ai preziosi enzimi maceranti di cui nessuno, nemmeno la scienza, conosceva l’esistenza, il risultato, sarebbe stato perfetto. 

Non tutti sanno ad esempio che lo sterco di uccelli conteneva, oltre agli enzimi, acido urico, e che era ottimo per le pelli destinate alla preparazione di cuoi da sella in modo da prevenirne la screpolatura. La concia vera e propria consisteva nel rendere la pelle imputrescibile e impermeabile all’acqua con l’utilizzo del tannino contenuto in diversi vegetali quali la quercia, il sommaco e la vallonea, un arbusto spontaneo della macchia mediterranea siciliana. Il percorso della strada del Serraglio Vecchio conserverà per tanto tempo l’aria maleodorante anche per la presenza del macello. Un bando nel 1763 proibì di uscire con la carne e le interiora più della larghezza del bancone, e di macellare nelle pubbliche strade. Soltanto nel 1832 il regolamento per la polizia municipale di Catania impose per la macellazione luoghi stabiliti dal Senato. Tali locali erano talmente ristretti da spingere i macellai a disattendere l’ordinanza e a continuare la macellazione dentro le loro botteghe finché non fu costruito il macello dal pavimento inondabile per garantirne la pulizia e costruito in un luogo appartato situato di fronte alla sede dell’ex gazometro. E fu così che la strada del Serraglio Vecchio si esaurì proprio lì, «quasi a riva di mare», accanto al nuovo macello.


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