La notte degli Oscar con Marco Fallanca

Alla vigilia dell’apertura dei cinema (almeno in zona gialla) si celebra forse il più importante tra gli eventi legati al cinema. La 93esima edizione degli Oscar. Un’edizione che celebra la ripartenza, in cui non è mancato il red carpet, anche se statico e all’insegna della sicurezza dei partecipanti. Per qualcuno un’edizione mesta, forse troppo, in cui il Cinema sembrerebbe non aver brillato. Un’edizione in cui gli italiani (purtroppo) restano a guardare. In un’America segnata da forti tensioni razziali, (risuona forte ancora il grido di Black Lives Matter, ndr.) sembra quasi si voglia porre l’attenzione sui temi caldi della società, una società in cui anche le donne cercano e trovano il giusto riconoscimento.

Entrando nello spirito della premiazione, decidiamo di confrontarci con chi di cinema ha vastissima conoscenza e che sul territorio è stato in grado di fare “la differenza”: Marco Fallanca. Giovane mente brillante, già direttore di produzione del 66° Taormina Film Fest e critico teatrale.

Marco, una storica edizione questa, in cui gli slittamenti di data hanno avuto la meglio sull’organizzazione generale. In passato solo tre avvenimenti storici hanno bloccato lo svolgimento della manifestazione: nel 1938 per l’alluvione che colpì Los Angeles; nel 1968 a seguito dell’uccisione di Martin Luther king; nel 1981 a seguito del tentativo di uccisione di Ronald Reagan. Celebrazione che sembra voler segnare la definitiva rinascita, la tanto desiderata normalità a cui tutti aspiriamo.

«Beh, in un momento storico così delicato – anche per la film industry, la distribuzione, la filiera festivaliera e, soprattutto, dopo le feroci critiche all’universo dei premi cinematografici – l’edizione degli Oscar, fortemente voluta in presenza, è stata sicuramente molto condizionata. Una tappa prorogata ma ugualmente obbligata che è sì un messaggio di speranza, ma anche lo specchio di tutte le contraddizioni che ruotano intorno allo svolgimento in presenza di questi show televisivi in tempo di pandemia e della modestia di una stagione non particolarmente significativa e memorabile sul piano dei prodotti audiovisivi. E allora, con la awards season più lunga di sempre, si rinnova il solito dibattito e la vexata quaestio tra chi trascorre la notte insonne per l’appuntamento con la statuetta più ambita e chi lo diserta, tra chi rileva minuziosamente le carenze dello show riadattato e tra chi confuta il valore, le logiche e il sistema (spesso poco meritocratico) di queste istituzioni. Eppure, come ogni anno, stiamo ugualmente lì a leggerne, commentarne».

Una vittoria annunciata per “Nomadland” della regista cinese Chloe Zhao, già leone d’oro a Venezia 77. 

«Sicuramente è la riprova che l’Oscar passa da Venezia che, sotto la direzione di Barbera, ha fatto, in questo senso, una sapiente operazione di immagine. Quest’anno mancavano blockbuster come Joker, A Star Is Born, La La Land e ci si è accontentati di un film d’autore che si è da subito imposto, complice anche il rinvio dei debutti di Cannes che hanno atteso un anno per l’edizione 2021. Dopo lo storico poker di Parasite lo scorso anno, la doppietta agli Oscar di Chloé Zhao conferma fosse il film da battere, nonostante il basso budget. Vale il tris a Frances McDormand e consegna alla storia la seconda miglior regista (dopo Kathryn Bigelow nel 2009), che però adesso sbarca subito nell’universo Marvel di Eternals, con Angelina Jolie, ben 40 volte più costoso. Ad ogni modo, l’unica alternativa credibile – anche alla luce dei risultati nei precursors e che infatti gli ha scippato la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale – era The Father di Florian Zeller che in Italia vedremo solo a settembre. Eppure, Nomadland rispettava perfettamente i nuovi canoni che l’Academy programmaticamente ricerca e impone».

Cosa ti è piaciuto e cosa avresti preferito non vedere? 

«Non mi è dispiaciuta la rinuncia al Dolby Theatre in favore della più informale location della Union Station e la scenografia minimale, con tavoli e lampade come ai Globes, ispirata alla prima cerimonia svoltasi all’Hollywood Roosevelt Hotel nel 1929 alla presenza di 270 invitati. Sicuramente sono felice per il riconoscimento all’ottantatreenne Anthony Hopkins, preferito a quello postumo a Chadwick Boseman. Non è mancata, infatti, la polemica per #OscarSoWhite, che ormai mi sembra del tutto infondata e pretestuosa data la dilagante e sproporzionata preferenza accordata ai candidati di colore nelle ultime edizioni. Avrei voluto – finalmente – l’Academy Award per Glenn Close (è andata a vuoto anche l’ottava nomination, sigh) ma che stavolta davvero non lo meritava. Lo show è stato prolisso, noioso e spesso pieno di lungaggini, a partire dall’acceptance speech senza tempi contingentati. Deludente anche l’omaggio “in memoriam”, con un filmato davvero sbrigativo e colonna sonora inappropriata. Sono ovviamente mancate le esibizioni live dei brani candidati alla miglior canzone originale, pre-registrate e mandate in onda nel pre-show. La serata è stata un po’ scialba e non ho apprezzato il verdetto relativo agli attori in chiusura, al posto di quello sul miglior film. Ho amato come sempre il carpet e i presentatori, anche se mi interrogo sulla valenza dei premi, non sempre rispettosi di criteri meritocratici che si identificano con la qualità e il valore artistico. È difficile e sempre più assurdo comparare opere così eterogenee, alla luce di paletti e criteri di idoneità stringenti e settari. Quest’anno era impossibile ignorare le piattaforme ma peccato poi i film in gara li abbiamo visti davvero in pochi».

Frances Mcdorman, ed il suo ululato, un omaggio al compianto Michael Wolf Snyder, tecnico del suono suicida; nel suo discorso di ringraziamento ha citato il Macbeth «Non ho parole: la mia voce è nella mia spada» e poi, con parole sue: «Sappiamo che la spada è il nostro lavoro e a me piace il lavoro, Grazie per averlo riconosciuto e grazie per questo». Quanto la “sua” presenza ha influito sul personaggio interpretato in “Nomaland”? 

Frances McDormand è una vera fuoriclasse e una straordinaria professionista. Non è un caso abbia eguagliato Ingrid Bergman e Meryl Streep (le manca ancora una statuina per raggiungere Katherine Hepburn). Ha recitato accanto a moderni nomadi americani e, come solo lei può, ha incorniciato uno dei “suoi” personaggi nel film di cui è anche co-produttrice. A 63 anni si presenza spettinata e con la ricrescita, a riprova che per esercitare il potere femminile non serve nemmeno più il glamour. Una delle poche a poterselo permettere. È un’interprete unica, rara, non convenzionale. Mette a punto la rivincita delle antidive e invita il pubblico a guardare il film – disponibile su Disney+ – sullo schermo più grande a disposizione. Un bel messaggio di speranza; e non sorprende sia stata forse l’unica, nell’edizione #OscarSoStreaming, a spezzare una lancia in favore della sopravvivenza delle sale, nella loro ora più buia.

Chloe Zhao e Frances Mcdorman si sono incontrate pochi anni fa e tra loro è stata subito intesa, quanto il “girl power” influenza il cinema? 

«Il cinema ormai appartiene alle donne. Negli Usa è il risvolto più bello di una grande ipocrisia come il post-#MeToo. Penso anche a Margot Robbie, appena trentenne e una delle più belle sul red carpet, già produttrice/interprete di un biopic splendido che meritava tanto come “I, Tonya” nonché ieri in veste di co-produttrice di Promising Young Woman di Emerald Fennell. O ancora a Reese Witherspoon e Nicole Kidman con la loro Big Little Lies da 5 Emmy e 4 Globes; la seconda anche al timone di The Undoing sempre con HBO. E ancora a Jennifer Aniston, Eva Longoria, Drew Barrymore, Jennifer Love-Hewitt, Phoebe Waller-Bridge. O a Patty Jenkins dietro la macchina da presa di un blockbuster come Wonder Woman, a Niki Caro dietro quella di “Mulan”, a Cate Shortland dietro quella di Black Widow. Senza contare alla vendetta femminista dell’esordio della Fennell e, soprattutto, alla magnifica Greta Gerwig, che ha diretto un “Piccole Donne” costato 40 milioni (prodotto da Amy Pascal) e che ne ha incassati più di cinque volte tanti. E anche in Italia ci godiamo professioniste come Rohrwacher, Archibugi, Bispuri. Le donne sono sempre più protagoniste. E non si tratta di semplici quote rosa».

Mank di David Fincher nonostante le 10 nomination, non è riuscito a brillare, possiamo dire che è stato il grande sconfitto?

«Mank è lo sconfitto, ma fino a un certo punto. Alla fine strappa fotografia e, come prevedibile, scenografia. Le intenzioni erano buone – seguiva il “Mankiewicz” di Gary Oldman e la paternità di “Quarto Potere” secondo la tesi di Pauline Kael – il risultato decisamente meno. La sconfitta – più che di Fincher, Oldman, Seyfried, Reznor & Co. – è figlia di Netflix, che bissa la débâcle ad appena un anno da “The Irishman” di Scorsese, che su 10 nomination di statuette non ne ha vinta nemmeno una. Hanno già fatto progressi».

Ma Rainey’s Black Bottom ha avuto la meglio sui costumi, trucco e acconciature di “Pinocchio”, rappresentato dal magistrale Garrone Lì, nonostante i costumi ed i trucchi in Pinocchio siano stati assolutamente eccezionali, ha vinto il tema sociale? 

«Premetto che per me il miglior Pinocchio resta quello classico di Comencini. Non ho amato la versione dark di Garrone, della quale eppure non discuto affatto il valore dei contributi tecnici di Cantini Parrini ai costumi, di Pegoretti alle acconciature e del tandem Coulier-Colli al trucco prostetico. L’eccellenza della bottega italiana è indiscussa. Per carità, non si discute nemmeno la Ann Roth di “Ma Rainey’s Black Bottom”, favorita dopo i precursors. È probabilmente il risultato delle nuove regole “inclusive” dell’Academy. Secondo me, per i costumi meritava anche “Emma” ma una vittoria italiana non sarebbe stata affatto generosa. Eppure la vittoria mancata non è necessariamente perifrasi di sconfitta, di delusione. Bisognerebbe imparare forse a godersi maggiormente il percorso, anche quando il risultato non è quello più ambito. Godiamoci il riconoscimento della nomination, che è già un traguardo incredibile».

Ultimo, ma non per importanza, i look da red carpet. Da Gucci a Chanel, passando per Oscar de la Renta fino a Valentino. La bellezza continua ad incantare. Quali resteranno negli annali? 

«Negli annali non saprei. Io sicuramente ho amato l’oro dell’abito Valentino Haute Couture e i gioielli Bvlgari di Carey Mulligan. Così come il floreale Gucci di Emerald Fennell, la seta cipria Gucci custom minimal di Vanessa Kirby con Cartier, lo spacco vertiginoso Vera Wang di Andra Day con Tiffany. Ma soprattutto il tulle plissettato Armani Privé di Amanda Seyfried e la classe del total Chanel in laminato silver di Margot Robbie. E che queen Regina King in Louis Vuitton. Eterno il nero Valentino con profili di piume di Frances McDormanrd e slides Atelier Valentino Garavani. La classe poi è Laura Dern nelle piume di Oscar de la Renta. Singolare il mood anni ’80 del bustier con maniche maxi Alberta Ferretti di Angela Bassett, l’anfora di Dana Murray, il tulle Louis Vuitton di Maria Bakalova. Decisamente meno il rosso Dior di Reese Whiterspoon con sandalo Jimmy Choo, il glicine D&G di Halle Barry con scollo a cuore e super fiocco, il giallo lime di Zendaya e 183 carati Bvlgari. Non ho trovato imperdibile nemmeno il Valentino in gazar di seta di Laura Pausini (molto meglio i gioielli Bvlgari). Tra gli uomini, insuperabili Brad Pitt in Brioni ed Harrison Ford in Paul Smith».


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