Le paure del laboratorio dei veleni in un film La regista: «Accusa a un’università vetusta»

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«La storia dei giovani universitari costretti a studiare e a fare ricerca in laboratori di chimica insalubri e dannosi è, per me, la metafora di come l’Italia sia, oramai, il Paese che divora i suoi figli». Costanza Quatriglio, regista di origini palermitane, ha scoperto le vicende del cosiddetto laboratorio dei veleni dell’ex facoltà di Farmacia di Catania come molti, leggendo i giornali. Lo scandalo del sequestro, gli elenchi di presunte vittime che si allungano, mentre la storia si trasferisce dalle aule universitarie a quelle del tribunale etneo. Poi nel giro di qualche mese cala il silenzio e anche la città sembra voler dimenticare l’edificio 2 della cittadella. Le udienze che si susseguono vedono sempre gli stessi volti, seduti nelle stesse sedie, ad attendere una verità difficile da stabilire. Ma Costanza non riesce a dimenticare le cinque pagine scritte al computer da Emanuele Patanè, dottorando di 29 anni, qualche settimana prima di morire per un tumore ai polmoni. Nella stessa stanza nella quale la verità su quanto accaduto nei locali dell’ateneo catanese inizia a emergere, decide che la denuncia di Lele, quel memoriale che ha dato vita a due processi, non deve cadere nel vuoto e inizia a documentarsi. La cronaca giudiziaria, senz’altro, ma anche la vita quotidiana di un ricercatore, le condizioni di lavoro nei laboratori, quel mondo vetusto come un vecchio impianto fognario che è l’università.

Cinque anni dopo Quatriglio realizza testardamente Con il fiato sospeso, un’opera che in 35 minuti racconta le vite parallele di Stella (Alba Rohrwacher), Anna (Anna Balestrieri, membro del gruppo Black Eyed Dog) e dello stesso Emanuele (Michele Riondino). La pellicola verrà proiettata fuori concorso oggi alla mostra del cinema di Venezia. Una notizia quasi insperata, «una cosa molto bella, legata anche all’avventura che abbiamo vissuto nel girare il film».

Cosa ti ha spinto a lavorare a questo progetto?
«Mi sono ispirata al memoriale di Emanuele Patanè, sono partita da lì. Mi hanno colpito la potenzialità di quel documento e la storia nel suo complesso».

Quando hai iniziato?
«Ho incontrato l’avvocato Santi Terranova (legale della maggioranza delle parti civili e il primo a mostrare al pubblico ministero Lucio Setola il memoriale di Patanè, ndr) tra Natale e Capodanno del 2008. Mi ha raccontato la vicenda, mi ha descritto le persone riunite nel suo studio e la sua reazione nel leggere il documento scritto da Emanuele portatogli dal padre. Grazie a quel gesto è cominciato tutto».

Da lì la tua vita si è intrecciata alle loro.
«In quello stesso luogo dove si erano raccolte quelle persone in cerca di verità ho sentito l’enorme potenza drammaturgica della vicenda e ho deciso che avrei dovuto fare qualcosa».

Quale prospettiva hai voluto adottare?
«Ho pensato ad un film nel quale mettere a confronto la gioia e la bellezza della gioventù e della salute con la paura più bieca, quella dei pericoli nascosti nella cosa che ami di più. Ho voluto raccontare questa storia per tutti quelli che credono in questo Paese».

Quali sono le reazioni che vuoi provocare?
«Voglio che gli spettatori si facciano delle domande, che ci sia una riflessione vera su cosa voglia dire fare ricerca in questo Paese e quale sia lo stato dell’università italiana. È il racconto di una studentessa che, nonostante la paura per la sua stessa vita, frequenta un luogo che dovrebbe contribuire a costruire la sua idea di mondo. Un luogo e delle persone che la tradiscono. Dal canto mio, io non do verità, il film non dà risposte, è un’accusa nei confronti di una classe accademica tra le più vecchie al mondo e di un’università vetusta».

Vetusta è un aggettivo interessante in questo contesto. Solitamente è il termine con il quale viene descritto il vecchio impianto fognario dell’edificio 2 della cittadella universitaria. Così come si parla di questa vicenda riferendosi a veleni e paure, elementi dominanti nel film.
«Siamo convinti che questo progetto, oltre a far riflettere sulle condizioni in cui sono costretti a vivere quanti amano la ricerca, aiuterà chi ha timore di raccontare esperienze simili. Nel sito del film una sezione sarà dedicata proprio a quanti vorranno far conoscere luoghi nei quali la sicurezza e la salute non sono tutelati».

È passato un po’ di tempo dall’inizio della vicenda giudiziaria che ha fatto conoscere all’Italia il laboratorio dei veleni. Per quale motivo hai atteso quasi cinque anni prima di far venire alla luce Con il fiato sospeso?
«Ho dovuto impiegare molto tempo a capire cosa significassero le parole di Emanuele, decodificare il memoriale, farlo mio. Ho frequentato alcuni laboratori, ho intervistato molti ricercatori. Ho anche studiato, so cosa significano i termini che Emanuele utilizza nel suo documento».

Ma la tua non è stata un’attesa dovuta solo al bisogno di documentarti.
«Nessun produttore ha voluto impegnarsi in questo progetto. Sono stata sullo start per quattro anni, ci sono state parecchie riunioni operative, si è parlato anche di cambiare l’idea originaria per adattarla alla televisione. Ma non c’è mai stato un impegno definitivo. Mi dicevano “Fai un documentario”, ma io volevo realizzare un film di finzione».

Per quale motivo?
«Volevo entrare nella testa delle persone che ho incrociato in questa strada. Stella, la protagonista, è la sintesi di tutti loro, quelli vivi e quelli morti. Non era mia intenzione fare una cosa troppo legata alla cronaca giudiziaria o concentrarmi sul dolore dei familiari. È stata proprio la loro sofferenza a convincermi ancora di più a fare un film di finzione».

Poi hai deciso di partire.
«Sì, in primavera abbiamo iniziato a girare e abbiamo finito in pochi mesi. Ma non sarebbe stato possibile finire così in fretta senza quel grande lavoro degli ultimi anni».

Molto importante è l’aspetto musicale. Anna, la migliore amica di Stella, lascia gli studi proprio per dedicarsi alla musica.
«Attraverso la musica ho voluto fare un omaggio a Catania e alle sue radici. Nel febbraio 2008 ho incontrato Cesare Basile e il gruppo della sala Lomax. La colonna sonora, il tema di Stella, è stata composta quattro anni fa; l’autore, Paolo Buonvino, l’ha conservata in un cassetto per me. La musica ti consola, ti accompagna, ti aiuta a venire fuori. Ha un linguaggio universale che somiglia a quello della chimica. È un paragone che ha fatto storcere il naso a molti, ma secondo me sono due mondi con molti punti in comune».

Com’è stato lavorare con Alba Rohrwacher?
«Come me, anche lei ha frequentato i laboratori, ha parlato con i ricercatori. Si è completamente immedesimata nel personaggio di Stella, tanto da rispondere alle domande di un’intervista come se lei fosse davvero una studentessa di Farmacia animata da quella passione e bloccata da quella stessa paura».

Il film verrà presentato sabato alla mostra del cinema di Venezia. Cos’ha significato per te entrare tra le opere fuori concorso?
«Abbiamo finito le riprese il 25 giugno, avevamo iniziato in primavera e avevo un po’ di pudore di mostrare quello che è un progetto quasi anomalo anche per la durata, solo 35 minuti».

Invece?
«È stato meraviglioso, abbiamo ricevuto immediatamente sostegno e passione da tutti quelli che lo hanno visto. Lo stesso presidente della mostra, Alberto Barbera, in conferenza stampa ha detto che ci sarebbero stati 35 minuti che avrebbero tenuto col fiato sospeso. Una bella dimostrazione pubblica, una soddisfazione».

Prima delle riprese hai incontrato alcuni dei parenti delle presunte vittime del laboratorio di Catania. Cosa ti hanno trasmesso?
(Tra una parola e l’altra fa una lunga pausa). «Spaesamento. Dolore. Pudore del proprio dispiacere e allo stesso tempo una grandissima dignità e la volontà di ottenere una verità. Ma sarà arduo per loro, vista la difficoltà nel collegare direttamente il presunto inquinamento alle morti. Hanno subito delle perdite atroci e vivono con questo enorme punto interrogativo sulla testa che però non rende meno reale il dolore che sono costretti a subire».


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