Romanzo a puntate, quarta parte Nella mente di Ludmilla e dei concittadini

Non ricordava il giorno preciso, all’interno delle proprie mura domestiche, in cui vide solo labbra che si serravano, schizzi di saliva, movimenti concitati o trattenuti; eppure le parve di comprendere lo stesso, a volte di comprendere di più.

Sapeva soltanto che il suo unico sollievo consisteva nel sentire il respiro calmo e quieto del merigno, o nell’ascoltare i versi degli uccelli fin dalle prime luci dell’alba.
Il notaio Ridispoli, invece, le si rivelava in tutta la sua essenza in quel suo mulinio di mani, che tanto differiva dal suo eloquio rarefatto; quelle mani nodose, nervose, ossute, instancabili, roteanti, dicevano qualcosa di definitivo: Ridispoli non era mai a suo agio, non lo era per strada, non lo era con la moglie, non lo era, tanto meno, a casa sua; Ridispoli era come un insetto precipitato nell’incubo di una ragnatela, il quale, ogniqualvolta vede avvicinarsi il suo carnefice, si dimena disperato.

Non capirò mai perché vengo qui. Per farmi analizzare? Devo essere radiografato ogni volta? Se solo si limitasse ad ascoltare, senza dare al viso quell’espressione incattivita; invece c’è del disgusto in lei, lo si vede affiorare. Non devo venire più, non sono tenuto a subire tutto questo. Lo sostengo ogni volta e ogni volta ritorno. Sono un asino! Un asino!

Il Farcecolo, un miserabile faccendiere e improvvisatore, non aveva, invece, alcun bisogno di parlare: era tutto lì, nella sua allegra, ma superficiale mediocrità; i suoi movimenti somigliavano a quelli della pulce d’acqua che, parendo disinvolta è, in verità, parecchio sgraziata.

Devo essere meno teso, la signorina se ne accorge, non so dove mettere le mani, devo dimostrarmi indifferente a quello che pensa, anche se il suo giudizio è cattivo e ingiusto; bisogna che sia superiore. Far finta di nulla, ecco ciò che mi rimane.

Questa scoperta rese Ludmilla Bengasi inizialmente nervosa e sconcertata; ancora di più la sconcertò lo scoprire che sentiva amplificati i pensieri di chi la circondava, anche ciò che veniva pensato dabbasso, per la strada: allora le arrivava prima un brusio feroce e insensato e poi, gradualmente, la voce di ogni singolo passante.

Ma che avrà da guardare quella? Non si ha nemmeno più voglia di passeggiare da quando non fa altro che spiare…
Devo farmi restituire quei soldi magari con gli interessi, ecco che cosa si ricava dall’essere generosi, un grazie e un “a mai più”.

Il silenzio d’ovatta all’interno della casa pareva essere l’anticamera del robusto e cattivo chiacchiericcio originato dal paese.
Poi la prese il sospetto che gli altri intuissero: da come trattenevano il respiro nel momento in cui si trovavano costretti a passare: accadeva, talvolta, che qualcuno sollevasse la testa come ad accennare un saluto e che, repentinamente, l’abbassasse, come se si fosse sentito, d’un tratto, denudato e vinto.
Per lei era divenuto impossibile non ascoltare, sin d’allora, quella smania, quell’ebbrezza.
Scoperchiare la vita ordinaria e scoprire le fantasie più riposte degli uomini: dappertutto ribolliva l’immaginario, il gioco, l’incesto, l’eccezione; come in un magma, la strada esondava di gente bambina e pericolosa, di richiami pagani, di celebrazioni scandalose e urlanti; sopra le strisce pedonali e sotto i cartelli di divieto brulicava l’indecente vitalità degli esseri viventi, la sotterranea sensualità di animali mai troppo addomesticati; nelle più rispettate personalità riluceva un riflesso gaglioffo; nella massa dei moralisti si stagliava un rovescio clownesco.
Ludmilla allora strizzava gli occhi e quasi cedeva a quel rumore che diventava odore, calore e carne; sentiva di dover tentare ad ogni costo di far implodere quell’immondo prestigiatore che è il pensiero.
Da quando, al mattino, s’udivano i primi passi della gente diretta al lavoro, quale uno sciabordio d’onde minute, prive dell’impeto che possiedono i venti, così il singolo scalpiccio sul marciapiede pareva non avere la forza d’andare, e, tuttavia, era semplicemente il primo segnale, appena percettibile, che qualcosa cominciava a destarsi.

Mamma mia, che freddo stamattina! Sarei potuto rimanere a casa, al calduccio; a lavorare invece, sempre a lavorare, con la neve e con il sole. Che vita!

Quando il sole era già alto, quello che poteva credersi un solo, minuscolo sbadiglio dell’esistenza, s’ingrossava, diveniva un urlo feroce e insistente, ma che pure conteneva qualcosa di suadente e provocatorio, ed era ciò ad impedire che ella rientrasse inorridita per quello che accadeva intorno, quel percepire la densità appiccicaticcia dei viandanti recava inevitabilmente un enigma indecente che si risolveva in qualcosa di deprecabile e oscuro.
Fino a quando Ludmilla ebbe la possibilità di udire i personaggi che, di volta in volta, popolavano la sua residenza, tutto era stato improntato alla decenza, alla condanna del furto, dell’abominio, della più banale menzogna; i suoi interlocutori gareggiavano in motti che esprimessero saggezza e biasimo per coloro i quali contravvenivano alle regole sante della buona società, ed ella non poteva che accogliere bonariamente, ma con quella freddezza che le era innata, le frasi che, puntualmente, servivano ad omaggiarla; a lei che era stato conferito, da tempo immemore, il titolo di giudice morale dell’intero paese, bastava consolidare questa onorificenza con una condotta sorvegliata ed abitudinaria.

Essendo una vecchia vergine, non avendo conosciuto le impurità del sesso, la Bengasi era la vestale di un culto rispettato da tutti; ed in realtà le visite alla sua dimora avevano tutte le caratteristiche di antichi riti ormai perduti: inevitabilmente si offriva alla padrona di casa un saluto riguardoso, inevitabilmente si evitava di ricambiare una sua occhiata, inevitabilmente ci si sedeva a semicerchio e si biasimava chi, al momento, non si trovasse all’interno del salotto, sempre erano banditi l’ironia, il sarcasmo, il sottinteso, nonostante fossero, all’insaputa di tutti, gli ospiti d’onore.

Nel momento in cui ella si alzava, come in un tacito accordo, si alzava anche il resto della compagnia, e, proferendo le medesime formule di saluto che si ripetevano da sempre, ci si accomiatava.

Ma solamente adesso Ludmilla comprendeva quanto le parole fossero inutili, di quanto la verità le sovrastasse, di quanto se ne facesse beffe, di come le riducesse a ricami e decorazioni che non avrebbero mai modificato il fine ultimo di un indumento: quello d’essere indossato.
Così dopo un primo, inevitabile stordimento, non le spiacque affatto non intendere più ciò che la gente aveva da dire, né i suoi più abituali visitatori s’accorsero minimamente della menomazione che era accorsa alla loro venerata e temuta sacerdotessa: nessuno osava rivolgerle direttamente delle domande; del resto non si sapeva, non si capiva da cosa nascesse quell’esigenza di andare da quella donna così riottosa ai rapporti sociali, eppure se ne sentiva la necessità più che di recarsi da qualsiasi confessore.

Uscendo dalla porta, dopo aver portato a compimento quell’incomprensibile rituale, ci si sentiva nettati e puri, riammessi a godere del favore degli dei; nessuno avrebbe saputo spiegare come questa abitudine avesse trovato radici a Serbottana.

Lo stesso parroco, uomo timido e riservato, non si dava cruccio della predilezione riservata dalla popolazione alla signorina; quasi si scherniva quando qualcuno gli chiedeva di essere perdonato grazie alla sua intercessione verso qualche santo. Così Ludmilla Bengasi si fece via via più potente e forse commise l’errore più grande: si sostituì all’invenzione di dio.

Poiché il magma dell’umanità, la sua fetida saliva, la nauseava ed attirava, prima di andare a letto, estenuata, non si privava mai di un saluto al merigno. La affascinavano i suoi occhi, quello che la sua mente animale produceva. Perché c’era qualcosa di metafisico in lui. Spesso sentiva che il suo battito cardiaco si affratellava a quello dell’uccello, e non si stupiva mai di riscontrare che il volatile non la temeva. Era l’unico essere a non temerla. Sentiva che il merigno possedeva qualcosa di consustanziale. La notte apriva sempre la sua gabbia, per permettergli il volo e la fatica, e sempre il misterioso animale tornava al mattino.

Inoltre, quando il merigno girovagava, Ludmilla Bengasi aveva finalmente tregua, si sentiva portata ad altezze sconosciute. Si librava su Serbottana, un senso di onnipotenza la pervadeva, e sentiva di potere essere qualcosa di più che una donna alla quale si chiede semplicemente di invecchiare in silenzio, comprendeva che in sé albergava una volontà più forte di quella dei suoi compaesani, che era lei a dettare legge, a poter dire: tu muori, tu canti, tu bestemmi. Come un demonio sentiva di poter tessere il destino di molti. Come l’Onnipotente poteva inventarsi un culto sul quale signoreggiare anche dopo la propria morte.

Non era fatta della stessa natura degli uomini. Aveva talmente affinato le sue capacità mentali da potere oltrepassare l’ovvio. Ne era certa: voleva provarsi.
Ma prima che la propria vita potesse allungarsi in verticale, ella pensò che potesse estendersi in orizzontale.

La sua mente non conosceva davvero requie. Sapeva di poter contare su altre vite, su altri paesaggi, su qualcosa che non fosse forzatamente riconducibile alla sola Serbottana.
Avrebbe voluto dominare su tutti i luoghi conosciuti, entrare dentro la mente di ogni essere vivente, sviluppare un’esistenza tanto intensa da avviluppare ogni singolo battito cardiaco del mondo.

Il merigno, lo sapeva, era l’artefice della percezione così netta, e pura, e nauseante, delle elucubrazioni della gente che ella odiava. Sarebbe anche potuto essere il corpo metafisico attraverso il quale Ludmilla, che aveva sempre agito di riflesso, come a non avere l’energia necessaria per essere viva, avrebbe potuto assaporare l’altrui esistenza.
Dunque in lei cominciò a farsi strada prepotentemente l’idea che una sorta di passaggio fisico e precettivo potesse fare di una signorina un po’ in là negli anni un uccello affamato di narrazioni. Di altre terre. Di altri confini.

Perché ciò avvenisse la Bengasi avrebbe dovuto esercitare, oltre ogni limite, la propria capacità di concentrazione.
Non le sarebbe bastato un semplice esercizio mentale, aveva bisogno di una sorta di reincarnazione in vita. Aveva l’urgenza di esistere.

In quello struscio di abitanti sotto al balcone riconosceva, a volte, barlumi di intensità. Soprattutto nei ragazzini che riuscivano con poco ad immaginare miriadi di storie. Erano gli unici attimi in cui il suo sguardo si distendeva, si pacificava, perdeva la sua consueta malignità.

Gli studenti che uscivano da scuola esplodevano in corse, richiami, inseguimenti. Lungo la strada si sentivano pirati, calciatori, o imperatori. Formavano eserciti, organizzavano campagne militari, si perdevano in isole, rompevano occhiali, entravano dentro a degli specchi, cercavano di scoprire come sarebbe stato conoscere un matto, o si organizzavano nel tentativo di scovare tesori.

La loro fantasia era inesauribile e vivida. Anche quando venivano rinchiusi dagli adulti in quei contenitori che hanno il nome di case, anche quando i contenitori si rimpicciolivano e risucchiavano i ragazzi in quelle scatole ancora più piccole e asfittiche che hanno il nome di televisioni, anche quando venivano catturati in loculi ancora più piccoli che hanno il nome di videogiochi. Anche quando la compressione della loro immaginazione era immensa, Ludmilla Bengasi era convinta che i ragazzi non si sarebbero potuti arrendere, che la loro capacità di trasformazione era in grado di andare aldilà delle regole e delle costrizioni; che, adesso, all’improvviso, e per la prima volta, le parevano assurde.
Ella, che del rispetto delle norme aveva fatto il proprio regno, si scopriva generosa e benevola nei confronti di chi aveva pochi anni alle spalle.

Non le davano fastidio le scarpe sporche, le camicie sudate, i capelli unti. Quella era la sola celebrazione della vita. Solo in quel vigore riconosceva l’autenticità dell’esistenza: essere menzognera.

Una notte in cui ella non riusciva a prendere assolutamente sonno, turbata da quello che sarebbe potuto essere il racconto della terra, si alzò dal proprio letto, e si diresse verso il gabbione del suo alato confidente. Ovviamente non era ancora rientrato. A lei bastò, però, pensarlo: ed ecco che il merigno si posò pesantemente sulla ringhiera del balcone.

Ludmilla Bengasi accostò la propria testa al petto del volatile, e non potè fare a meno di commuoversi. Quante storie sapeva il suo cuore, quanti racconti immaginari, o reali, gli consentivano di planare con rinnovata curiosità!
Come le sarebbe piaciuto entrare in tutte quelle vite! Anche in quelle più sordide e misere. La giustificazione al suo desiderio era l’immaginario.

Ad un certo punto notò come vi fosse qualcosa di strano e ammaliante negli occhi del merigno.
Cosa non provò quando si accorse che le sue orbite erano abitate!
Si vedeva, al fondo, una piccola figura stagliarsi nell’occhio destro, e un’altra, ancora più curiosa in quello sinistro.

Ludmilla Bengasi si strinse al petto il merigno, sentiva di aver fatto una scoperta eccezionale, comprendeva che avrebbe potuto affondare in quello sguardo, e scoprire tutte le storie di cui avrebbe avuto bisogno per sopportare il peso delle malefatte dell’infame cittadina di Serbottana.

[Illustrazione di Francesco Guarino]


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