Ma che musica maestro

Ha ragione Aldo Grasso a non perdonare a Villaggio quella famosa battuta di Fantozzi sulla “Corazzata Potemkin”: consentire a chiunque di sghignazzare, per esempio, al nome di Wittgenstein (peraltro citato in un contesto che qualsiasi liceale potrebbe comprendere) o di fronte ad un normalissimo esercizio di rilassamento, è faccenda imperdonabile. È accaduto al Musikanten di Franco Battiato, fischiato e demolito dalla critica alla mostra del cinema di Venezia, ma sostenuto dal pubblico, soprattutto quello dei fan. Anche a volersi fidare della buona fede di alcuni critici (non dico di tutti, perché c’è stato pure chi non ha saputo distinguere Antonio Rezza da Claudio Rocchi e chi ha riportato frasi mai pronunciate), troppa superficialità e troppo livore palesano malafede. Fino al punto da accreditare l’abnorme eresia per cui al Beethoven musicista incompreso e deriso, possa corrispondere il Battiato regista.

Togliamo di torno gli equivoci: non sono in grado di dirvi se Musikanten sia un capolavoro, certo potrebbe essere un capostipite. A tratti specialistico, a tratti forzato (la presenza del filosofo Sgalambro), inefficace ed indeciso nel finale, ma capace anche di emozionare con alcune inquadrature e trovate sonore. Il film soffre la sala e la visione condivisa; reclama, mi pare, un’attenzione difficile da sperimentare con altre persone. Le intenzioni di Musikanten, comunque, sono chiare e dichiarate fin dall’inizio. La trama è quasi un pretesto e la pellicola non contiene in sé nessuna pretesa di realismo. Al centro di tutto c’è la volontà di raccontare la vita di un grande uomo e musicista come Beethoven. Ci si arriva tramite l’esperienza di due conduttori televisivi che sulle tracce di personalità parascientifiche, si imbattono in uno sciamano che condurrà la protagonista femminile a rivivere gli ultimi anni dell’esistenza del compositore. Su questa architettura Battiato mostra ancora una volta la propria capacità di minare dalle fondamenta la sua stessa fortezza. Il tentativo è quello di trasmettere una percezione delle eccellenze e della voglia di mettersi in cammino, ma il seme del dubbio e del ridicolo è talmente ben distribuito da erodere questa costruzione e da lasciarti tra l’ammirato e il sospettoso. Il mistico, ad esempio, proprio nel cuore del film, dichiara che esporre l’esoterico a chiunque non è bene, e che per questo non può tollerare riprese televisive (“sono trappole, prigioni che fissano la personalità nel tempo”). E intanto, tramite il film, succede esattamente ciò che non è consentito. Impossibile, soprattutto se si considera che l’attore in questione è Juri Camisasca, un vero musicista eremita, deridere la ricerca, così come sentirci misticamente illuminati. Quello che ha l’aria di essere serio, non lo è fino in fondo. La pellicola è stracolma di queste situazioni: pensiamo al nobile ottocentesco che viene definito senese solo perché nel 2005 si è girato a Siena o all’uso delle telecamere lipstick che riprendono Beethoven nel pieno del dramma della sordità come fosse inquadrato dalle camere a circuito chiuso dei grandi magazzini. Shock addizionali da perfetto discepolo di Gurdjeff o cialtronerie da perfetto furbo dei nostri tempi? Non è solo questo il punto. L’interrogativo serio ci sembra un altro: a che gioco ci sta conducendo l’autore?

In questa costante ricerca della distanza (al limite della contraddizione) e del richiamo alla finzione, sta la vera forza anarchica del film. Perché poi, alla fine di tutto, quando sarà luce in sala, ciascun individuo è chiamato a vivere l’esistenza che gli appartiene e a decidere, come propone il sufi Gabriele Mandel nella pellicola, se è il caso di lanciarsi nell’abisso appesi ad una corda, oppure lasciar perdere, come fanno, non a caso, i due protagonisti del film. Musikanten, come tante canzoni ed opere di Battiato, non esaurisce un percorso (e come potrebbe?), ma invita, propone, incoraggia e, perché no? allontana e scoraggia. In fondo Battiato chiede poco al suo spettatore, anzi forse non chiede nulla e cioè, ahilui, chiede troppo.

Dite che sto cercando la ragione del film al di là della pellicola stessa? È esatto. Musikanten impedisce l’accettazione supina di ciò che ha tutta l’aria di affascinare ed essere veritiero. E questo non riguarda più il film, o Battiato, o i suoi fan, o le tecniche di ripresa o la critica. Riguarda noi e il nostro rapporto con la verità delle centomila cose del mondo. Mica roba da poco. Un’esperienza da barattare volentieri, almeno per una volta, con la fruizione classica del cinema.

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