In difesa della riforma universitaria

Cari amici,
penso che la soluzione più saggia sarebbe quella di tornare al
vecchio ordinamento, che fra le sue non poche qualità (in alcuni
campi “sfornavamo” i migliori laureati d’Europa) aveva anche quelle,
decisive, della semplicità e della chiarezza. Apportandovi le
indispensabili modifiche, naturalmente, ma senza fare come i
responsabili della riforma, che hanno buttato il bambino per tenersi
l’acqua sporca.

Non solo, ma gli studenti meritevoli provenienti dalle classi più
disagiate sono stati danneggiati moltissimo dalla riforma, che ha
eliminato quel po’ di meritocrazia che tutelava. Che se ne sia reso
responsabile un governo di sinistra è uno di quei tristi paradossi
della storia. Ma ora bisogna interrompere questo circolo perverso. La
riforma è insalvabile, i correttivi proposti (imposti) in questi
ultimi  mesi l’hanno resa ancora più macchinosa e impraticabile.
Insomma, tornare indietro per andare avanti.

Saluti cordiali,
Stefano Manferlotti (Università di Napoli Federico II)

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Cari amici, e Stefano Manferlotti in particolare,
va tutto bene, ma non inventiamo favole e soprattutto non
propaghiamole. Da dove viene fuori che “in alcuni campi ‘sfornavamo’ i migliori laureati d’Europa”? (chi, quando?). Sono stato per molti anni in diverse commissioni a livello europeo e davvero non me ne sono accorto. Tra l’altro era difficile vederli perché in grandissima parte i laureati italiani non sono poliglotti. E tra l’altro ancora è statisticamente improbabile avendo noi avuto fino alla 509, 10% di laureati sulla popolazione, dato che condividevamo con Portogallo, Turchia e Messico soltanto. Mentre la maggior parte dei paesi europei sviluppati ne aveva sopra il 20% e alcuni sopra il 30%.
Quando uno studioso fa affermazioni di questo genere, che vanno in
giro anche al di là della nostra bolla confinaria, o cita la fonte,
oppure rischia di esporci al ludibrio di altri paesi d’Europa, che
con più legittimità aspirano a questa qualifica.

Quanto alla chiarezza dell’ordinamento (“fra le sue non poche qualità
aveva anche quelle, decisive, della semplicità e della chiarezza”)
andate a parlarne con i numerosi studenti postlaurea all’estero che
(come me) hanno subito l’esperienza, non proprio piacevole, di vedere
adeguata la vecchia laurea al livello BA. E soprattutto qualcuno, per
favore, per favore, prima di parlare di “chiarezza degli ordinamenti
tradizionali” si vada a leggere le carte del Bologna process cui
partecipano ora 43 ministeri nazionali dell’università dai 28
originali di Bologna. Dobbiamo credere che siano tutti cretini? Oppure che facciano parte della SMERSH-Berlinguer per distruggere la università italiana?

Mi trovo attualmente a Barcelona in un comitato internazionale di 14
membri per la valutazione del dottorato online della UOC. In Spagna
come in tutti gli altri paesi d’Europa (se mi sbaglio accetto correzioni) nessuno parla di 3+2, ma si parla di Bologna Process oppure, come in Francia del più corretto LMD (Licence, Master, Doctorat). Tutti fanno fatica ad adeguarsi al nuovo sistema, scelto appunto per ragioni di trasparenza e compatibilità, ma da nessuna parte si insiste così tanto sull'”orrore” di un ciclo breve. Anche perché era solo l’Italia a non averlo. Posso ricordare il passo centrale della dichiarazione di Bologna del 1999?

The Bologna Declaration of 19 June 1999 involves six actions relating to:
1.a system of academic grades which are easy to read and compare,
including the introduction of the diploma supplement (designed to
improve international “transparency” and facilitate academic and
professional recognition of qualifications);
2. a system essentially based on two cycles : a first cycle geared to
the employment market and lasting at least three years and a second
cycle (Master) conditional upon the completion of the first cycle;
3. a system of accumulation and transfer of credits (of the ECTS type
already used successfully under Socrates-Erasmus);
4. mobility of students, teachers and researchers;
5.cooperation with regard to quality assurance;
6.the European dimension of higher education.
The aim of the process is thus to make the higher education systems
in Europe converge towards a more transparent system which whereby
the different national systems would use a common framework based on three cycles – Degree/Bachelor, Master and Doctorate.

Come mai solo nel nostro paese ci si è concentrati sulla formula
giornalistica “3+2” che esclude tutti gli altri aspetti dell’esperimento europeo e che ha dato vita a pubblicazioni che di libro hanno a malapena il titolo e la copertina cartonata (se qualcuno me lo chiede posso documentare questa affermazione, con il necessario spazio)?
Come mai si continua a ripetere come verità assoluta la colossale
ovvietà che non si possono fare bene in tre anni, tutte le materie che si facevano prima in  quattro o cinque e che è questo, in aggiunta al perverso sistema di “imponibile di mano d’opera”, negoziato a livello centrale, uno dei nodi del problema, e non l’ipostatizzazione di un numero qualsivoglia di anni  per un percorso formativo?
Come mai al mondo ci sono università in cui, poniamo, si può
diventare super avvocati che operano a livello mondiale, in tre anni,
più un paio di mesi per l’esame professionale? Sono più stupidi i
nostri studenti? Sono più inetti i nostri professori? Oppure è
l’imponibile di mano d’opera che obbliga gli studenti a  farsi  “n”
esami, in moltissime parti ripetitivi perché l’iesimo gruppo
cattedratico deve piazzare i suoi allievi e lo può fare solo se
controlla quell’orticello?

Nessuno si può nascondere le difficoltà legate a un cambiamento dal
nostro sistema superfeudale tradizionale che ha dato la prova di
essere uno dei peggiori del mondo (dati alla mano. Dati OCSE, ma non
solo: io per esempio ho lavorato sui dati UNESCO con risultati
simili) a un sistema europeo articolato diversamente.

Ma prima di affermare che “gli studenti meritevoli provenienti dalle
classi più disagiate sono stati danneggiati moltissimo dalla riforma,
che ha eliminato quel po’ di meritocrazia che (immagino l’università preriforma, ndr) tutelava”, occorre dire dove si trovano i dati che sostengono una affermazione di questo tipo che dichiara l’opposto di tutte le ricerche fatte in argomento, oltre che della comune esperienza.

A scrivere blog e tatzebao siamo capaci tutti, ma le discussioni in
ambiente scientifico dovrebbero rispettare alcune verità fattuali.
Usiamo gli strumenti degli studiosi (scholars) e lasciamo agli intellettuali come Pietro Citati la licenza di parlare, anche di cose che non conoscono. Per esempio si smetta di ripetere con meccanica
papericità che “le imprese rifiutano le lauree triennali”, perché
come ha dimostrato Andrea Cammelli nella conferenza “La Riforma alla
prova dei fatti. VIII Indagine AlmaLaurea sul profilo dei laureati. Caratteristiche e performance dei 180.000 laureati 2005″ (Verona, Aula Magna dell’Università, giovedì, 25 maggio 2006) dove sono intervenuti molti studiosi e fortunatamente pochi intellettuali, le imprese i laureati triennali non li hanno ancora visti.

Non sappiamo quindi se li vorranno o no, e far passare ora come un
fatto accertato quella che è solo l’opinione di chi parla è una azione da irresponsabili perché rischia di danneggiare migliaia di studenti e trasformarsi nella classica profezia che si autoavvera.

Comunque poiché il problema dell’inserimento dei laureati (tutti e di
tutti gli anni) nel sistema produttivo italiano esiste, e come, si
cominci a ragionare di azioni da intraprendere in campo di politica
industriale e del lavoro, e non sempre limitando la visuale alla
discussione autistica sul sistema formativo. Nel caso specifico si
può usare l’ampio database creato da Alma Laurea (che può essere
complementato, per una copertura quasi totale del sistema, da quello
del Cilea per le università lombarde) da cui non risulta affatto che stia avvenendo quello che Manferlotti asserisce con la sicurezza riservata agli assiomi.

Se usiamo poi le esperienze personali posso dire che nella mia
facoltà da quattro anni è attivato un corso di laurea triennale con
numero programmato di 150 matricole (più altre 150 del parallelo
corso di Nettuno) in “Scienze del turismo e comunità locale”. In
tutto fanno 300 matricole ogni anno che conosco bene perché tengo uno dei moduli di trincea del primo anno. Quasi nessuno di questi
studenti – che non sanno il latino, ma che sono tra i migliori che
abbia avuto – sarebbe andato all’università senza il ciclo breve.

I laureati triennali  vanno a collocarsi in un settore che è uno degli assi portanti dell’economia del paese nel quale c’è un bisogno assoluto di persone con preparazione universitaria specifica. Come si conciliano questi dati e queste esperienze, che non posso ovviamente generalizzare, ma che hanno una loro corposità numerica non
indifferente, con l’opinione personale, e allo stato non minimamente
documentata, espressa dal collega dell’Orientale che “studenti meritevoli provenienti dalle classi più disagiate sono stati danneggiati moltissimo dalla riforma”?

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere i molti problemi delle lauree
triennali e soprattutto quelli del passaggio alle lauree del ciclo lungo, per non parlare del dottorato. Nella mia facoltà e anche in buona parte della mia università si stanno sperimentando varie soluzioni: con molto impegno, posso anche dirlo, perché essendo in sabbatico non parlo di me.

Certo tutto sarebbe più facile se ci fossero meno vincoli di imponibile di mano d’opera, che van bene in una economia povera, ma sono letali per far crescere. Ma non posso sottoscrivere il catastrofismo di tanti “sentenziosi intellettuali” e anche quello di alcuni colleghi dell’ANDU intervenuti in questi ultimi tempi. Negli ultimi venti anni l’università italiana, con tutti i suoi problemi, ha fatto passi da gigante. Perché non stiamo a sentire chi ha fatto ricerche accurate come Roberto Moscati, oppure come il coordinatore dei Presidi della Facoltà di Scienze i quali hanno monitorato la 509 con il rigore degli studiosi.

A Verona il collega Enrico Predazzi dell’Università di Torino già
coordinatore delle Facoltà di scienze, concluso il suo discorso dicendo (non sono responsabile delle  singole parole, perché prendevo note, ma posso assicurare la corrispondenza del senso): “certamente ci sono molti problemi nella applicazione della 509, ma non siamo neppur lontanamente vicini alla situazione descritta da Pietro Citati” (che, aggiungo io, non monitora un bel nulla, ma parla da intellettuale, sulla base del sentito dire di “qualche amico” come lui stesso scrive).

Quanto a “tornare indietro per andare avanti” può darsi anche che ciò
avvenga, perché, come scrive Sartori, noi siamo un paese veramente
strano. Ritorneremmo così ad essere quel sistema universitario unico
al mondo che i dati di comparazione internazionale segnalano e con le
caratteristiche di qualità infime che gli erano riconosciute ovunque.
Ricordiamoci però che quella era “L’università dei tre tradimenti”
(Raffaele Simone, Laterza, Roma, 1993 (agg. 2000) prima che la banda
Ruberti-Berlinguer ci mettesse mano) e aspetto ancora qualcuno che
produca una pubblicazione ante-marcia in cui si elogiassero, allora e
dati alla mano, tutte le virtù che oggi si attribuiscono ai bei tempi andati, secondo una millenaria inclinazione della nostra cultura di perenni laudatores temporis actis.

[Dalla lista di discussione dell’ANDU (Associzione nazionale Docenti
Universitari)]


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