Intervista a Gianmaria Testa

Incontriamo Gianmaria Testa subito dopo il soundcheck, durante il quale abbiamo avuto un assaggio di ciò che avremmo poi ascoltato nel concerto. Per non disturbare i suoi musicisti, impegnati in una cena a base di pizzette e rustici, ci spostiamo in un camerino vuoto. Il set della nostra intervista, pareti dai colori sgargianti e un’appariscente e frivola sedia con stoffa leopardata, è in netto contrasto con l’intervistato, semplice nel suo modo di apparire, ma con pensieri profondi.  Ci rammarichiamo di non avere con noi una macchina fotografica.

Durante il suo primo concerto a Catania disse: “Io non condanno la nostalgia, perchè è un bel sentimento. Se uno ha nostalgia vuol dire che ha passato dei bei momenti”. Che ruolo ha la nostalgia nelle sue composizioni?
Ha il ruolo che ha il passato, il passato che in qualche modo ha in mano il presente, che ritorna, che ti condiziona e che ti fa vivere. E’ questo il ruolo. Mi rendo conto che non si può vivere di solo passato, ma non lo dimentico.

“Da questa parte del mare” è un album dedicato ai viaggiatori che non partono, se non con la mente. Lei appartiene a questa categoria di viaggiatori?
In realtà “Da questa parte del mare” è dedicato alle migrazioni moderne, quindi a coloro che sono costretti ad abbandonare una terra per cercarne un’altra perchè da loro c’è una miseria insopportabile o la guerra, e viaggiano con la mente nel senso che cercano una via di fuga. La cosa che mi ha impressionato è che noi italiani, che siamo stati emigranti fino a una generazione e mezza fa…e qualcuno ancora lo è, fondamentalmente abbiamo accolto questi che vengono […] con lo stesso trattamento che ci è stato riservato all’estero. Questo mi dispiace, non perchè non pensi che una migrazione così massiccia non crei problemi, lo so benissimo che li crea, non sono un buonista, però mi aspettavo, anche da me, una immediata umanità fino a prova contraria, mi aspettavo che non ci sarebbe stato quel razzismo della brava gente che dice “I neri sono tutti ladri” oppure “I marocchini sono tutti disonesti”…perchè naturalmente non è vero, così come non era vero che tutti gli italiani fossero mafiosi come dicevano gli americani o che tutti gli italiani fossero ladri come dicevano i francesi. Credo che ogni popolo abbia una sua quota di disonesti più o meno uguale, non credo che ci siano popoli più disonesti.  Quindi mi aspettavo una maggiore umanità.

Lei da anni ha rapporti con la Francia. In tempi di globalizzazione c’è la possibilità di fare un confronto tra le due culture, quella francese e quella italiana, e il processo di relazione con il pubblico di queste due nazioni?
I confronti sono sempre possibili, ma riguardano soprattutto il modo in cui le istituzioni hanno  trattato la cultura. Io penso che l’umanità si assomigli più di quanto ci vogliano fa credere. Penso che ci sia un modo di sentire molto simile, io ho girato molto il mondo e non ho notato molte differenze, mentre invece ho notato molte differenze nel gestire la cultura. In Francia negli anni passati, adesso inizia anche lì ad essere problematica la faccenda. era gestita meglio che da noi questa è la ragione per cui ho cominciato in Francia, perché non avrei avuto spazio qui…ce l’ho avuto poi di rimando lo spazio.

Fabrizio De Andrè disse di non aver voluto mai incontrare Brassens, che considerava un maestro, per paura che conoscere l’uomo potesse rovinare l’idea che aveva del cantautore francese come artista. Lei ha mai conosciuto qualcuno degli artisti a cui si è ispirato?
Credo che De Andrè abbia fatto uno sbaglio a non incontrare Brassens, ho degli amici che hanno conosciuto Brassens e me ne parlano come una grande persona che corrispondeva a quello che faceva. Pero credo che avesse ragione in assoluto. Spesso se ti piace l’opera di qualcuno è meglio non incontrare l’artista perché vedi anche “il lato b” , il lato negativo. Era una cosa che all’inizio mi stupiva molto, quando incontravo la persona di cui avevo amato l’opera e vedevo quanto era distante dal mio immaginario. Poi con il tempo anche io ho smesso, come De Andrè, di voler incontrare le persone. Quando però mi capita di incontrare qualcuno che corrisponde a quello che scrive a quello che fa, come Erri De Luca,  allora quello è un bel momento, quando non ci sono separazioni tra la l’uomo e la sua opera, tra la donna e la sua opera…quello è veramente un privilegio incontrare delle persone così, mi è capitato con Erri, mi è capitato con uno scrittore francese che si chiama che si chiama Jean Claude Izzo, mi  con molta altra gente. Purtroppo non sono la maggioranza quelli che corrispondo alla loro opera.

La musica cantautoriale e  il Jazz non sembrano destinato ad un successo di massa. Lei è contento di questo, o preferirebbe che la sua musica si diffondesse ad un pubblico di massa?
Io vorrei solo questo: che non ci fosse nessun tipo di coercizione, cioè che chi va un concerto se gli piace si compra il disco, oppure va in un negozio di dischi,  lo ascolta e se lo compra, o se lo copia da un amico e se poi gli piace veramente  lo compra. Per questo vorrei un’accessibilità senza nessun bombardamento. Dopodichè da lì in avanti, se sono 3 o 3 milioni che ascoltano dipende dal tipo di interazione che riesci ad avere con chi ti ascolta. Io non h aspettative su questo , mi sono sempre stupito di leggere che a Taiwan hanno comprato 150 copie del mio disco; mi chiedo “ma chi diavolo sono? perché?”. Oppure recentemente mi ha scritto uno dal Sudafrica chiedendomi se poteva tradurre una mia canzone in afrikaner e gli ho detto “per carità, se vuoi…si”, ma mi fa specie, mi fa strano. Non ho aspettative, questa è una della ragioni per aver conservato il mio lavoro, se funziona, ma per me il successo non c’entra con la quantità di pubblico, per me una canzone di successo è una che è capace di riprodurre l’emozione che l’ha generata in me. Quando la canto è credibile, può anche non piacere a nessuno, ma non importa.

Ci parli della sua collaborazione con Erri de Luca
Di Erri sono stato un lettore ammirato e poi mi è capitato di fare qualcosa con Marco Paolini e con Mario Brunello […]. Abbiamo fatto uno spettacolo a Vicenza per un’associazione che si occupa di malati terminali di A.I.D.S. E quando ci siamo ritrovati lì abbiamo detto “cosa facciamo”. Uno era un attore, uno un musicista classico, io scrivo canzoni…ma ho scoperto che una cosa che ci accomunava era Erri Da Luca e le sue opere. Abbiamo fatto una cosa incentrata molto su di lui, in sua assenza senza chiedergli neanche il permesso perché non lo conoscevamo. Dopo lo spettacolo, che è andato molto bene, abbiamo detto: “Perché non proviamo a sentire lui, magari”. E così è andata, abbiamo messo in piedi una cosa che si chiamava “Attraverso” che abbiamo fatto a Mantova per il festival della letteratura e in altri posti. Lì ho conosciuto Erri e poi da lì in avanti è stato…come dire…un’amicizia che a prescindere dal fatto che lui scriva e io canti è un’amicizia e basta. Quindi ci si incrocia, adesso molto spesso, e abbiamo fatto questo progetto suo, “Don Chisciotte e gli invincibili” e uscirà un disco a gennaio. Sicuramente faremo molte cose insieme. Per esempio, lui viene ad alcuni mie concerti sull’immigrazione come ospite, così ci vediamo…insomma è anche un modo per incontrarsi.

E come ultimi progetti? Cosa farà in futuro?
Una quantità industriale di concerti in giro per il mondo e in Italia, troppi. Dovessi esprimere un desiderio per il futuro è quello di fermarmi a casa per un po’ non so quando però.


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