Duddy: un personaggio alla Bart Simpsons

Ci sono libri che hanno bisogno di tempo per essere digeriti ed apprezzati, dopo essere stati letti; L’apprendistato di Duddy Kravitz rientra in quella categoria, l’unica in cui può rientrare. E’ un’opera complessa questa di Mordecai Richler, un libro che parla della storia di un uomo, fotografato per la prima volta all’età di quindici anni, e che accompagna la crescita di quest’uomo per quattro o cinque anni.

Duddy è un ragazzino piuttosto difficile, ribelle, un po’ Bart Simpsons, e il romanzo ce lo presenta subito in una delle sue perfomance migliori, in uno scontro con un prof del suo liceo, anzi con un mitico prof, progressista e illuminato, che si rifiuta di usare le punizioni corporali, molto in auge nella scuola. Mister Mcpherson è il prototipo dell’insegnante modello, sconfitto anche lui dalla vita nelle sue illusione – nessun suo vecchio alunno lo va mai a trovare a casa, dopo essere diventato famoso, per celebrare i vecchi tempi – e nella sua quotidianità – la moglie, che egli adora, è affetta da un male che la costringe all’inabilità. Eppure mostra fiducia incondizionata nell’umanità e nel suo progresso, anche in gente come Duddy, il prototipo dell’ebreo arrivista e spaccone. La “carriera” di Duddy inizia così, diventando la causa indiretta della morte della moglie di MacPherson.

Da lì in poi la sua vita è una escalation. Duddy adora il suo vecchio nonno, l’unico in famiglia che riconosca al ragazzo i caratteri della genialità, e fa sua una delle ammonizioni del vecchio: un uomo senza un po’ di terra non è nessuno.

Duddy combatte, lungo il corso dei suoi prossimi quattro anni, con mani piedi e denti per conquistarsi un posto che sia suo, uno spiazzo di terra con al centro un lago che egli sogna possa diventare una nuova città di villeggiatura per ricchi ebrei.

Perchè questo romanzo, è bene dirlo, è un romanzo che parla e mostra solo ebrei che vivono e si muovono, che sopravvivono, in una galleria di tipi così reali e veri, da far pensare ai romanzi dostoievskiani, con un centro, certo, ma con tante voci che ruotano e che prendono spesso la scena: il padre di Duddy, taxista, famoso per aver scarrozzato in giro uno degli ebrei – gangster – più famosi della città, il fratello Lennie, il secchione predestino ad una brillante carriera medica che invece mostrerà i segni della debolezza del suo carattere precipitando in un losco affare, e sarà Duddy a tirarlo fuori, lo zio l’ebreo arricchito e senza figli, con un matrimonio fallito e che ama Lennie e che detesta Duddy, Dingleman il Ganster, Yvette la fidanzata, ecco lei una gentile, Mr Friar, cineasta un po’ nouvelle vague che non può lavorare ad Hollywood perchè comunista, e poi Virgil, la pietra su cui Duddy inciamperà.

E’ un romanzo che cresce e muta con le pagine, questo. Pensiamo di detestare Duddy e finiamo col tifare per lui, per lui che si sbatte come un pazzo per tenere insieme la famiglia, e per dare la terra al nonno. Pensiamo di detestarlo ma tutte le sue disavventure, raccontate con mano sciolta e con grande ironia, ci fanno sorridere, a volte persino ridere, e allora ci ritroviamo dalla sua parte, anche quando dice ad Yvette che non potrà mai sposarla, perchè lui è destinato ad una ricca ebrea, o quando gabba la buona fede di Virgil, malato di epilessia (sarà un caso il ricorso a questa malattia di cui era affetto, oltre che Fedor, anche il principe Miskin?): perchè vogliamo tutti che lui compri quel dannato pezzo di terra, perchè un uomo senza terra non è nulla.

La comprerà, e per comprarla Duddy passerà sopra qualunque cosa: tranne che per suo nonno non ha rispetto per nessuno, solo per il suo sogno: e quando gli ritornano in mente gli anni al liceo ebraico e la domanda: ma sono stato io ad uccidere la moglie di MacPherson esplode nella sua testa, anche in quel momento, anche quel momento dura un attimo. Non c’è pentimento, non c’è rimozione. Tutto perchè quella terra diventi sua, ecco lo scopo della sua vita, costruire una nuova città e, in un posto appartato, creare quella fattoria che suo nonno Simcha ha tanto desiderato.

Il finale sarà però diverso dal sogno di Duddy, e quello che ci resta di questo libro straordinario non è questo incredibile museo di personaggi che l’ebreo Richler ha creato con la sua penna: ci resta l’idea che non si può passare sopra a tutto, sopra a tutti, sopra qualunque sentimento o malattia, non mostrando mai interesse per gli altri se non per la propria ossessione, per conquistarsi e tenersi come propria un pezzo di terra, come direbbe il mio nume Mueller, un pezzo di terra in cui marcire.

Allora, forse, la storia che l’ebreo Richler ci racconta non è l’epopea di uno squalliso giudeo arrivista: forse è l’epopea di un popolo, il suo popolo.

E’ un libro bellissimo, questo, che vi crescerà dentro e che non si fa dimenticare.

RICHLER MORDECAI, L’ APPRENDISTATO DI DUDDY KRAVITZ, ADELPHI 2006, € 19,50


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