Laudani, tra Acireale e Paternò gli affari sulla Lidl Milioni di euro e tangenti sotto il segno dei Vicerè

Era andato a Milano. Gli uomini delle forze dell’ordine lo avevano visto arrivare all’aeroporto di Linate, lo avevano seguito nei suoi spostamenti e avevano ascoltato le sue conversazioni. Poi, il 9 febbraio alle 21, il volo di ritorno per Catania, per tornare a casa ad Acireale. Il 10 febbraio, all’alba, l’arresto nel corso dell’operazione I vicerè della procura etnea: 109 persone finite in manette nel corso del maxi-blitz contro il clan Laudani. Orazio Salvatore Di Mauro nella stanza del Cosmo Hotel Palace, un quattro stelle di Cinisello Balsamo dove aveva passato la notte tra l’8 e il 9 febbraio dell’anno scorso, non poteva sapere che al suo rientro nel capoluogo etneo gli si sarebbero aperte le porte del carcere. Classe 1966, parente acquisito del patriarca Sebastiano Laudani per averne sposato la nipote Giovanna, secondo gli inquirenti nel capoluogo lombardo aveva incassato seimila euro per conto della famiglia mafiosa. Che sarebbe finito in carcere di lì a poco non potevano saperlo neanche le persone che, secondo la procura di Milano, con lui avevano messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere con l’obiettivo di fare gli interessi dei mussi di ficurinia attraverso l’ottenimento degli appalti per la sicurezza nel tribunale meneghino e, soprattutto, della ristrutturazione, della logistica e della sorveglianza degli ipermercati Lidl in alcune province d’Italia

Si tratterebbe di
Luigi Alecci (nato a Paternò, classe 1957), Giacomo Politi (nato ad Acireale, classe 1976), Alessandro Fazio (nato ad Acireale, classe 1976) ed Emanuele Micelotta (nato a Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, nel 1970). Sono i tasselli dell’inchiesta Security che – secondo i magistrati milanesi – unisce Piemonte, Lombardia e Sicilia nel segno della corruzione. Tra i siciliani assieme a loro, ma senza ruoli di vertice, ci sarebbero stati Nicola Fazio (Acireale, classe 1963), Enrico Borzì (Acireale, classe 1972) e Vincenzo Greco (Biancavilla, classe 1955), finiti ieri in carcere. Arresti domiciliari, invece, per Vincenzo Strazzulla (Catania, classe 1961); divieto di dimora in provincia di Catania per Rosario Spoto (Acireale, classe 1979). È attorno a loro che il pool antimafia di Milano, guidato dalla procuratrice aggiunta Ilda Boccassini e dal sostituto procuratore Paolo Storari, ha stretto il cerchio. Ricostruendo una fitta rete di cooperative tutte legate tra loro, che sarebbero servite ad accumulare fondi neri – per esempio cifre mai pagate al fisco o debiti mai saldati – da reinvestire nel sostentamento della cosca e nella corruzione di funzionari lombardi, anche del settore pubblico, per l’ottenimento di appalti sempre più sostanziosi.

Per tirare le fila di tutto è necessario partire dalle due società principali: la
Sicilog e la Securpolice, entrambe con sede a Cinisello Balsamo, una attiva nel settore della logistica e l’altra in quello della sorveglianza privata. Entrambe coinvolte nel gioco di cooperative che nascevano e morivano in continuazione, muovendo – nel frattempo – milioni di euro. Ai vertici della prima ci sarebbero stati, di fatto, Luigi Alecci, Giacomo Politi ed Emanuele Micelotta. Alecci e Politi, secondo la magistratura milanese, sarebbero i referenti in Lombardia della famiglia mafiosa dei Laudani. Emigrati entrambi da tempo in provincia di Milano, a differenza di Politi, il paternese Alecci è pregiudicato: condannato in via definitiva, nel 1988, per omicidio, porto abusivo d’armi e occultamento di cadavere, non avrebbe mai nascosto il suo affetto nei confronti di elementi di spicco della cosca. Del bene che vuole a Ianuzzo (che sarebbe Sebastiano Laudani, classe 1969) parla apertamente con Politi: un sentimento rivolto più alla famiglia che a Ianuzzo direttamente. E in un’altra circostanza, a dicembre 2016, parlando di un pestaggio Alecci avrebbe sostenuto «l’esistenza di un gruppo di belle persone, con amici sparsi in tutto il mondo», affermando «ripetutamente di essere un membro di tale “bella famiglia”», si legge nelle carte dell’inchiesta.

Frasi esplicite che gli costano più di un fastidio da parte di Politi e Micelotta, che vorrebbero che fosse più attento nelle sue
conversazioni telefoniche. Essendo rimasto l’unico «della famiglia» fuori dal carcere dopo l’operazione I vicerè, qualche accortezza in più non sarebbe sgradita. Non fosse altro per evitare che la magistratura mettesse in fila i puntini di certi contatti. Come la conoscenza con Stillo, cioè Stellario Fileti (Aci Catena, classe 1967), anche lui accusato di essere affiliato ai Laudani. Oppure quel viaggio in Venezuela fatto da Giacomo Politi con Omar Scaravilli (Catania, classe 1981), indicato dal pentito Giuseppe Laudani come il braccio destro di Ianuzzo. E proprio Sebastiano Laudani si sarebbe trasferito in Venezuela per il timore di finire dietro le sbarre. Secondo i tre – Politi, Micelotta e Alecci – il più pericoloso dei contatti, però, era un altro: quello con Orazio Salvatore Di Mauro che, il giorno prima del suo arresto, aveva passato il suo tempo a Milano in compagnia dell’imprenditore catanese emigrato Alessandro Fazio. È lui, in effetti, il trait d’union tra il precedente terzetto – e quindi la società Sicilog – e la Securpolice, di cui sarebbe stato gestore insieme al fratello Nicola Fazio. 

Secondo un racconto che Politi fa a Micelotta, senza sapere di essere intercettato dalle cimici delle forze dell’ordine, la collaborazione con Di Mauro sarebbe cominciata nel
2009. Anno in cui, sotto l’occhio attento di Sebastiano Laudani, il gruppo sarebbe riuscito a ottenere il controllo dei supermercati Lidl in Sicilia. In effetti, tra il 2009 e il 2012 Politi è il rappresentante legale di una società che si occupa di vigilanza privata e che, in un paio d’anni, ottiene lavori dalla Lidl Italia srl (azienda che non risulta indagata né coinvolta) per circa un milione di euro. E sarebbe «al fine di ottenere appalti di servizi e commesse in territorio siciliano da Lidl Italia srl» che anche i fratelli Fazio verserebbero denaro a Turi ‘u biondu Di Mauro. Nelle carte della magistratura, oltre ai viaggi di Di Mauro verso Milano ci sono anche quelli degli imprenditori residenti in Lombardia verso Acireale. Dopo il blitz contro la cosca, sarebbe necessario fare arrivare presto dei soldi in Sicilia per pagare gli stipendi ai familiari degli arrestati. Secondo la ripartizione formulata da Alecci e comunicata a Politi, tremila euro sarebbero andati a Di Mauro tramite la moglie, altrettanti a Sebastiano Laudani tramite la madre, e infine mille euro a Nino Camelia, anche lui considerato affiliato e arrestato nello stesso blitz.

A occuparsi della gestione dei soldi dopo febbraio 2016 sarebbe stato il «cassiere» Enrico Borzì. Gli appuntamenti sarebbero avvenuti in tre luoghi precisi: il
chiosco Mediterraneo, in via delle Terme ad Acireale, il mobilificio Di Mauro (di fronte al chiosco) o il magazzino del mobilificio (in via Domenico Savio, a un isolato di distanza). Pochi metri dopo, in via Collodi, c’è anche il negozio Greco sport, che sarebbe riferibile a Vincenzo Greco poiché intestato al figlio. Il padre avrebbe avuto il compito di emettere fatture gonfiate per prestazioni inesistenti nei confronti delle società principali. Nei confronti della Sicilog, per esempio. A settembre 2016 Giacomo Politi chiede a Vincenzo Greco una fattura da quattromila euro, soldi che avrebbero dovuto essere restituiti, in contanti, entro la settimana successiva. In questo modo, il denaro usciva dalle casse aziendali in maniera apparentemente regolare e rientrava subito nelle disponibilità di quelli che, secondo gli inquirenti, ne erano i gestori di fatto. 

Discorso simile vale per gli altri due indagati siciliani:
Vincenzo Strazzulla, responsabile di una pizzeria-gastronomia a Lissone (in provincia di Monza e Brianza), avrebbe dovuto comunicare di avere pronti i contanti da restituire usando la frase «Vieni a ritirare gli arancini che ho recuperato». Attivo nel settore della ristorazione è pure Rosario Spoto, titolare ad Acireale del ristorante Lo scalo da Saro, anche questa attività usata, secondo i magistrati milanesi, per emettere fatture fittizie. Nei confronti di Spoto, però, il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto insussistente l’accusa di associazione mafiosa.


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