Inchiesta Motta, quel regalino al carabiniere amico «Ora vediamo di metterci qualche soldo in tasca»

«Nel fine settimana vediamo di metterci qualche soldo in tasca». «Me lo auguro» «C’è sempre un regalino, e te lo dimostro!». Potrebbe essere una conversazione normale tra due persone che tentano di sbarcare il lunario e invece, secondo la procura di Catania, è la prova che a Motta Sant’Anastasia la corruzione riguardava anche gli insospettabili. Da una parte della cornetta c’è Filippo Buzza, all’epoca (è il 2017) agli arresti domiciliari; ad ascoltarlo, sperando che le cose vadano bene, c’è Gianfranco Carpino, appuntato dei carabinieri della stazione locale dei militari. È certamente questo uno dei passaggi più inquietanti dell’inchiesta Gisella, che ha portato a un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 26 persone ritenute vicine al clan Nicotra, detti Tuppiper via dell’acconciatura del capomafia Mario. Per gli investigatori, il gruppo di Motta era favorito dal legame con l’appuntato dei carabinieri, che avrebbe svelato a Buzza e a Daniele Distefano (ritenuto il capo della frangia mottese) più di una informazione riservata. E avrebbe addirittura organizzato i controlli per il rispetto degli obblighi domiciliari sulla base degli impegni criminali che gli venivano comunicati via telefono.

Le conversazioni intercettate, una dietro l’altra, dipingono un quadro di grande confidenza. Buzza, impegnato a organizzare furti di vario genere, chiacchiera con Carpino del più e del meno. Tra un «mi sto facendo un piatteddu di pasta» e l’altro, nei dialoghi finiscono i turni di lavoro del carabiniere e i servizi sul territorio gestiti dai suoi colleghi. Ma anche i pettegolezzi sul presunto rapporto di un altro militare con una donna, che poi Carpino avrebbe spiegato essere una confidente delle forze dell’ordine. «Un soggetto che senza alcuno scrupolo disonorava la divisa collaborando con il crimine», è la definizione usata dalla procura di Catania. Semplicemente «u russu», per via del colore dei capelli, come lo chiamavano i presunti componenti della cosca.

«Stiamo andando in giro per comprarci un paio di scarpe», gli dice Daniele Distefano al telefono. «Io pure sono piedi piedi – risponde il carabiniere Carpino – a vedere quelli che si comprano le scarpe». I due sghignazzano. Per l’accusa, il linguaggio in codice è piuttosto chiaro: Distefano cerca l’obiettivo del prossimo colpo, da specializzato quale sarebbe nei furti di mezzi agricoli con cavallo di ritorno; il secondo si riferisce al suo lavoro di pattuglia. Un cortocircuito possibile con un po’ di organizzazione: bastava sapere che Filippo Buzza sarebbe tornato a casa dopo le 20.30, cosicché l’appuntato Carpino organizzasse il controllo per le 21.40. Un margine ampio il giusto. Oppure, dove la necessità lo imponesse, si doveva anticipare la verifica delle forze dell’ordine: se c’era da rubare un trattore, per esempio, era importante che il controllo dei carabinieri avvenisse prima di mezzanotte. Sicché tra il furto, la sparizione del veicolo e il ritorno a casa non si rischiasse di fare l’alba. «Quando ci sono io stai tranquillo – puntualizza Carpino – passo una volta, non passo anche la seconda».

Certo, capitava anche il contrario. «Hello… Vedi che sono a casa», notifica Buzza al carabiniere, poco prima delle 23. Quella notte, infatti, sarebbe stato previsto un colpo in un terreno di campagna. Reso impossibile dalla presenza di alcuni pecorai accampati in quella zona, con il gregge, con l’obiettivo di fermarcisi. «Non esci?». «Eh, no, purtroppo no». Pochi giorni dopo, Filippo Buzza richiama Carpino per dargli una notizia: gli hanno detto che c’è un furgone pieno di dolci, rubato e nascosto a Motta. «Perché non c’eri tu di servizio – si rammarica l’uomo – Perché allora ti dicevo vattelo a prendere tu». Così faceva bella figura in servizio. «Ti dicevo vatti a fare una passeggiata, fai il ritrovamento…».

Visto il legame, i due si lanciano anche in un commento sul sistema della giustizia. Discutono della scarcerazione Francesco Spampinato, alias Ciccio panza, e Buzza non manca di fare notare il suo fastidio: «Io per una cosa che ho già pagato, ancora sto pagando – spiega, riferendosi ai domiciliari a cui è sottoposto – e gente che fanno ciò che fanno sono liberi. Mi casca la testa! Non l’ho capito». Carpino, dal canto suo, rilancia: «Eh, non l’hai capito… Vuol dire che quelli, quando fanno le cose, sono più intelligenti di te». La furbizia come metodo per liberarsi delle strette maglie della giustizia. La risposta di Buzza è chiarissima: «Ah! Ora mi vado a sedere con il giudice e parlo: pane al pane e vino al vino». A suggellare il commento, una doppia risata: dell’accusato di mafia e del carabiniere.


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