Giarre, controllo del clan pure per montare le giostre Intercettazione: «Prima bussa e chiedi se c’è posto»

L’autorizzazione di Cosa nostra anche per montare le giostre. Pure da questo passano i delicati equilibri mafiosi del territorio di Giarre. Una presenza criminale radicata, quella del clan Brunetto collegato alla famiglia catanese dei Santapaola-Ercolano, che si alimenta grazie a una cappa di omertà fatta di zero denunce e troppa connivenza. Nelle carte dell’inchiesta Jungo non c’è solo il ruolo di Pippo il cinese, all’anagrafe Giuseppe Andò, venditore ambulante di frutta e verdura ritenuto un boss di primo piano. 

Tra gli aneddoti finiti nei documenti c’è una diatriba tra due giostrai concorrenti tra loro ma non indagati. Ognuno porta avanti le proprie ragioni affidandosi a personaggi collegati alle cosche. Il primo a essere chiamato in causa è Andrea Leonardi, conosciuto come il biondo e particolarmente vicino al gruppo Andò. «Tu gli devi dire con chi deve parlare», si lamentava il giostraio riferendosi al collega. Il dialogo viene intercettato grazie a un trojan inserito nello smartphone, una sorta di spia tecnologica che durante l’indagine registra ogni dialogo di Leonardi. «Se monta gli brucio tutte cose», ribatteva il biondo. «Lo mandiamo a chiamare – aggiungeva – e ci andiamo».

In quel confronto, secondo gli inquirenti, c’è una vera e propria richiesta di protezione avanzata al clan mafioso di Giarre. «Il giostraio – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – pretendeva l’esclusività dell’esercizio dell’attività». Dietro quella tensione, l’interesse di un imprenditore – originario di Bagheria, nel Palermitano – che avrebbe puntato gli occhi su un terreno da prendere in affitto tra Giarre e Fiumefreddo per montare la sua attrazione, un’autoscontro con dei gommoni che si muovono in uno specchio d’acqua artificiale. 

A interessarsi della delicata questione sarebbe finito anche il presunto boss Andò. «Tu nemmeno devi venire da Palermo e devi venire a comandare qua», ripeteva rivolgendosi a Leonardi. «Io non vengo a Bagheria e monto. Prima tuppolio (busso, ndr) e chiedo se c’è posto». Frasi che, secondo gli inquirenti, fotografano una spartizione del territorio tra i clan delle varie province. Prima di iniziare l’attività fuori dai confini c’è solo una soluzione: «Chiedere l’autorizzazione al mafioso del posto per avere il benestare». Il pomeriggio del 31 luglio 2018 le microspie, per dieci minuti, registrano pure l’intervento di un altro protagonista di questa storia: il pluripregiudicato – non indagato – di Santa Flavia (in provincia di Palermo) Paolino Cavallaro. Schierato, secondo i pm, dalla parte dell’imprenditore della Sicilia occidentale. 


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