Ciancio e i dettagli dell’inchiesta sul patrimonio Tra società «affette» e redditi «non giustificati»

«Un patrimonio in parte frutto di reato e, in parte, che non trova giustificazione nei redditi conseguiti. Motivo per cui è da considerarsi illecito». L’atto d’accusa è quello firmato e depositato dalla procura di Catania nell’inchiesta sui possedimenti dell’86enne Mario Ciancio Sanfilippo. Ex monopolista dell’informazione, imprenditore e, da qualche giorno, ex direttore del quotidiano La Sicilia. Su di lui, oltre a un processo per concorso esterno in associazione mafiosa, adesso pende una confisca di primo grado per un valore non inferiore a 150 milioni di euro. «Un mosaico di sospetti», l’ha definita l’avvocato Carmelo Peluso nella foliazione del giornale di viale Odorico da Pordenone, preannunciando il ricorso in Appello. Per il legale dietro alla scalata di uno degli uomini più potenti del Meridione ci sarebbero in realtà «le eredità di una famiglia prestigiosa e gli investimenti intelligenti». Ma su cosa si sono basati i giudici del tribunale misure di prevenzione per arrivare alla confisca

In mezzo a decine di faldoni, contenenti le accuse sui presunti rapporti tra Ciancio e la famiglia catanese di Cosa nostra, ha una collocazione fondamentale la perizia che i magistrati hanno chiesto nel 2015 alla società londinese Pricewaterhouse Coopers. Colosso mondiale specializzato nella consulenza fiscale e nella revisione di bilanci. La consulenza si aggiunge così alla genesi del procedimento patrimoniale, da rintracciare nello stesso anno. Quando la procura poggia la lente d’ingrandimento su un tesoretto da 52 milioni di euro riconducibile all’editore e in parte detenuto in Svizzera. Una fetta di questa torta è schermata attraverso la fiduciaria del Liechtenstein Attenuata Familienstiftung. Mentre cinque milioni di euro si trovano in una banca catanese. Dopo alcuni accertamenti, grazie a diverse rogatorie internazionali, si arriva al primo sequestro da 17 milioni di euro. Oggi confiscati e che allora l’editore avrebbe voluto fare rientrare in alcuni istituti di credito italiani. 

«A quel punto nasce la necessità di allargare l’analisi a tutto il patrimonio», scrivono i magistrati negli atti dell’inchiesta che a portato alla confisca. Così, nello stesso periodo, la procura affida la maxi consulenza a Pwc. L’obiettivo, ambizioso, è soltanto uno: ricostruire l’evoluzione del patrimonio di Ciancio e dei suoi familiari dal 1979 al 2014. Individuare le ricchezze del potente editore non è semplice ed è la stessa procura a metterlo nero su bianco: «Si tratta dell’analisi più complessa e approfondita mai svolta in tutto il distretto di Catania», si legge nei documenti del tribunale misure di prevenzione. 

Ma come ha operato la Pwc, considerato che si è dovuto tenere conto di redditi risalenti a quarant’anni fa? I primi indizi sono arrivati dagli incartamenti conservati negli archivi di camere di commercio, notai e uffici tributari. C’è poi il lavoro di individuazione di tutte le società della galassia Ciancio, tra cui quelle non più attive, partecipazioni e immobili, compresi quelli che nel tempo sono stati venduti. Un insieme di 1500 bilanci e oltre 1000 visure societarie. «Per ogni azienda sono stati controllati i flussi di denaro da e verso la stessa». Spingendosi nel tecnico si tratta di un fiume di euro provenienti da «versamenti di capitale sociale, ripianamento delle perdite, sottoscrizioni di prestiti e distribuzioni di utili». Fondamentale in tutto questo è stata anche una vecchia interpellanza parlamentare della metà degli anni ’80 che aveva permesso alla guardia di finanza di visionare i redditi dichiarati da Ciancio a partire dal 1976. Insieme all’ex proprietario del quotidiano La Sicilia le verifiche hanno riguardato la moglie Valeria Guarnacciail figlio ed ex condirettore de La Sicilia Domenico e le sorelle di quest’ultimo: Carla, Rosa Emanuela, Angela e Natalia. In elenco, invece, non sono finiti i beni posseduti dalle singole società. Il motivo lo spiega la stessa procura: «I beni in questione potranno comunque essere gestiti e utilizzati nella gestione della società in confisca». In poche parole una sorta di estensione automatica del sequestro e contestuale confisca.

Tra le aziende finite confiscate per alcune, in realtà, la procura aveva chiesto ai giudici di non procedere. Tra queste c’è la Parco Sant’Antonio, specializzata nella compravendita di immobili, in cui Ciancio deteneva il 41 per cento delle quote, con la restante parte in mano alla famiglia imprenditoriale Virlinzi. Copione identico per la società che edita La Sicilia, la Domenico Sanfilippo editore. Tra i flussi di denaro che provengono dalle società della galassia Ciancio diverse vengono etichettate come «affette» dalla «illiceità derivata». Cioè aziende che sarebbero state create con finanziamenti «non giustificati da redditi leciti». Nonostante gli innegabili collegamenti bisogna sottolineare come il procedimento patrimoniale stia seguendo un percorso autonomo rispetto a quello per concorso esterno alla mafia. Prove uguali ma valutazioni effettuate «per finalità diverse» nonostante «le chiare interferenze». Per Ciancio la procura aveva chiesto anche tre anni di sorveglianza speciale con obbligo di dimora a Catania e un conguaglio da 200mila euro. La richiesta di misura però non è stata accolta dai giudici. 


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