Mafia, il «memoir» del capoclan Alessandro Fragalà Da Catania a Roma col sogno della figlia in politica

«Quando noi siamo venuti a Roma, io avevo quattro annetti, ero piccolo. Il mio è stato un destino». Alessandro Fragalà racconta la sua infanzia e sembra emozionato. Una vita trascorsa nella provincia capitolina, gli affari di famiglia concentrati a Torvajanica (frazione del Comune di Pomezia) ma il cuore che batte sempre a Catania. Le manette si sono di nuovo strette attorno ai suoi polsi ieri, nell’ambito di un’inchiesta antimafia della procura di Roma, ma le sue conversazioni erano intercettate da anni. Anche per via delle dichiarazioni di suo nipote Sante, figlio di suo fratello Ignazio, diventato pentito e adesso impegnato a raccontare i segreti di quella frangia di Cosa nostra vicina alla famiglia Santapaola-Ercolano che dall’ombra dell’Etna si è trasferita sui sette colli, nel lontano 1962. Lui, però, l’amore per il capoluogo etneo non l’ha mai dimenticato: parla in dialetto catanese, racconta le amicizie del passato e rimarca la provenienza da «una famiglia catanese molto forte, clan Santapaola».

Ha 61 anni e a gennaio 2015 è tornato a casa, dopo essere stato a lungo detenuto in carcere. Di cose, nella vita, ne ha fatte. «Io me ne sono tornato a Catania e sono andato a scuola, per dire, là… E cominciai a crescere», dice al nipote acquisito (per avere sposato Mariangela Fragalà) Santo D’Agata, pure lui coinvolto negli affari di famiglia. La «crescita», però, è metaforica e la scuola è quella del quartiere. «Quando sono tornato di nuovo a Roma – prosegue – la testa ce l’avevo che volevo tornare sempre a Catania». A trovare la nonna e lo zio, e a incontrare gli amici del gruppo della Stazione: Melo, Nino… «Tutti quanti li hanno arrestati a quelli della Stazione», gli risponde D’Agata. Il rischio del mestiere va messo in conto.

Le immagini in bianco e nero risalgono alla metà degli anni Settanta. Lui, neanche maggiorenne, «sempre a San Cristoforo, perché io allora me la facevo là, dallo zio ‘nzino», cioè Vincenzo, il fratello di suo padre. «Ero un cornutazzo– si definisce – perché avevo sempre la pistola sopra la gamba». Per lui, la città era raggiante anche nei vicoli di quartiere, negli anni dei morti ammazzati in mezzo alle strade. «Nel Settantacinque è successo quel fatto e sono passato a Catania perché ero latitante. lo qua ero ricercato per la rapina in banca». Ma nella sua città d’origine non lo avrebbero beccato mai, coperto com’era. «Un anno e mezzo me lo sono fatto là sotto. Oramai ero bello cresciuto e con Alessandro, mio cugino… Io ero là prima che sparassero ad Alessandro, a mio cugino, va’… Gli hanno sparato là, alla via Plebiscito». Dopo, però. Perché finché lui è rimasto latitante a Catania, il parente era ancora in vita. «La buonanima di Alessandro ancora non lo avevano ammazzato nel Settantasei», ricorda.

L’amarcord tocca tutti: Maurizio, di Saro Zuccaro, «zio» Turi SantapaolaTuri VittorioNino Savasta. E chissà se adesso è libero, si domandano i due parenti acquisiti, Salvuccio ‘u ciuraru, cioè Giuseppe Salvatore Lombardo, cugino di Turi Cappello. Le conoscenze, si sa, sanno essere trasversali. L’abilità, però, sta nel sapere mantenere i contatti. Alessandro Fragalà, da Pomezia, ci riesce. Antonio TomaselliCiccio SantapaolaSaro ‘u rossu LombardoNando Santoro, per dire i primi. Ma anche i fratelli di Monte Po Angelo e Sebastiano Mascali, ex pentiti e dal 2003 buttati fuori dal programma destinato ai collaboratori di giustizia perché tutto avevano fatto fuorché allontanarsi da Cosa nostra.

E se per il capoclan il passato è dolce, il futuro può esserlo ancora di più. L’obiettivo è fare la «fusione catanesi e casalesi». E ci riesce. Quando, poco dopo essere uscito di galera, vuole ristrutturare casa si presenta per un’estorsione al titolare di un negozio di sanitari, lì a Pomezia. Oltre al pizzo, Fragalà vuole pure i lavori nell’appartamento (stesso discorso che farà con un falegname, al quale riesce a estorcere oltre ventimila euro di prestazioni professionali, più – forse – un televisore da 900 euro). L’imprenditore dei bagni cala l’asso, a modo suo, e tenta l’intermediazione del potente clan campano, amici suoi. Ma casca male: mentre Alessandro è in carcere, tra luglio e settembre 2014, suo figlio Salvatore e i referenti della camorra si sentono al telefono, riportano i magistrati, 304 volte. L’incontro tra i due gruppi per discutere dell’estorsione al negozio d’arredo bagno, più che una trattativa, è una carrambata: il bagno nuovo s’ha da fare, il motto è «siamo tutti una cosa». 

Il sogno di gloria rimasto irrealizzato è un altro. Se solo Astrid, sua figlia, fosse riuscita a entrare in politica. «Le ho detto “Astrid, tu devi studiare, tu sei… Hai le capacità, io ti creo le condizioni!“». La carriera era anche iniziata, a dirla tutta. Nel 2009 Astrid Fragalà diventa presidente di Confcommercio a Pomezia e, poco dopo, sponsorizzata per diventare assessora nel vicino Comune di Anzio. A raccontarglielo è Omero Schiumarini, intercettato anche lui: oggi consigliere comunale di Pomezia, ex candidato sindaco del centrosinistra alle elezioni amministrative 2018 (dopo avere vinto le primarie del Partito democratico) nonostante un passato in Forza Italia. «L’ho protetta come una sorella – dice nel 2015, mentre le cimici della procura capitolina registrano tutto – L’ho nominata presidente dei commercianti». E ancora: «Tu sei stata in lista per fare l’assessora ad Anzio. Tu quello che sei qui è una cosa… A 40 chilometri non c’è il collegamento!». 

All’epoca fu impossibile, ma secondo Alessandro Fragalà il tempo c’è: «Io guardo sempre lontano… Guardiamo il futuro – dice a sua figlia – Tu farai l’assessora». Al Commercio. «Agiamo di strategia – gli risponde Astrid – dobbiamo fare venire Omero e gli devi dire questi passaggi». Magari con l’aiuto anche dell’ex consigliere comunale Fiorenzo D’Alessandri (coinvolto, nel 2001, nella cosiddetta «tangentopoli pometina»). «La maggior parte, quando ci vedono a noi, dicono “Eccoli, i banditi!”», ammette Alessandro Fragalà. Che continua: bisogna puntare su volti «presentabili […] Noi gli mettiamo la fascia tricolore, poi gli accordi li facciamo dopo».


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