Il parco dell’Etna «è stato preso di mira dai piromani» Per l’ente soluzione potrebbe arrivare da terzo settore

In una Sicilia sempre più sotto assedio nella morsa degli incendi il parco dell’Etna è stato uno dei luoghi più scelti dai piromani. Da Linguaglossa Belpasso, da Paternò a Nicolosi. Sciara, terreni coltivati, vaste aree di macchia mediterranea e boschi con alberi secolari, niente è stato risparmiato dalle fiamme. A completare l’opera ci hanno pensato le alte temperature e il vento, ma dietro alla grande maggioranza degli incendi si teme ci sia la mano dell’uomo. «L’Ente parco non ha compito intervento – dice a Meridionews il presidente del Parco dell’Etna Carlo Caputo – ma svolge una funzione di controllo e vigilanza. E la regia nello spegnimento degli incendi è della protezione civile e del corpo forestale. Noi – aggiunge – ci limitiamo a registrare quello che accade e fare le valutazioni future su quello che si può proporre». Come nel caso della modifica alla legge 16 del 1996, che stabilisce l’impossibilità di cambiare destinazione d’uso di un terreno da pascolo a terreno coltivo se questo è stato coinvolto in un incendio negli ultimi 15 anni.

In merito a quelli che stanno devastando il parco dell’Etna, il presidente Caputo punta il dito contro una frangia di allevatori che «userebbero il fuoco per fare germogliare nuova erba», tanto preziosa per il bestiame quanto pericolosa per l’ambiente circostante, visto che le fiamme spesso si estendono per ettari ed ettari di terreno distruggendo quello che trovano al loro passaggio. «Pensiamo che alcuni di questi incendi, non tutti, siano provocati dai pastori – ipotizza il presidente – Ci siamo accorti che ogni anno si ripete sempre lo stesso triste copione: il fuoco si sviluppa sempre in alcune aree adibite a pascolo non autorizzato. Non vogliamo demonizzare la categoria – ci tiene a precisare – perché c’è anche una bella pastorizia autorizzata, sana e che aiuta il territorio». Ed è proprio da qui che è nata la proposta di potere destinare ad altri scopi i terreni utilizzati come pascoli che vengono attraversati da un incendio. 

Con la legge attuale, invece, i terreni percorsi dal fuoco non possono cambiare destinazione d’uso per 15 anni. «Per fare un esempio pratico – chiarisce Caputo – in questi anni, sull’Etna è nata una forte richiesta di terreni per impiantare vitigni, ma ciò diventa impossibile se quelle terre, adibite al pascolo, sono state attraversate dal fuoco». Il territorio del vulcano, negli anni ’60, ’70 e ’80 perlopiù non era coltivato, i terreni coltivi sono stati poi abbandonati e accatastati come pascolo per fare diminuire la loro rendita catastale e, quindi, pagare meno tasse. «Adesso che si è invertita la tendenza – fa notare il presidente – c’è chi vorrebbe riprendere gli ex coltivi che in questo modo, però, sono condannati a essere pascoli per sempre. E quindi – aggiunge – ad andare a fuoco per avere erba nuova da fare brucare agli animali. Un circolo vizioso che impoverisce i terreni perché fa perdere loro l’humus e, piano piano, porta alla desertificazione». 

Un quadro non rassicurante per cui, però, almeno una soluzione potrebbe essere già stata trovata. L’altra importante proposta da parte dell’ente parco dell’Etna riguarda, infatti, l’aspetto della prevenzione. Un territorio difficile con tanti soggetti coinvolti – dai vari Comuni alla Regione – che non sempre riescono a muoversi in sinergia tra loro. «Le forze in campo sono poche perché, nei decenni scorsi – lamenta Caputo – non è stata fatta una pianificazione opportuna del personale». Inoltre, a complicare la situazione ci sarebbe anche il fatto che «molti privati non si prendono cura dei propri terreni». Una soluzione a tutto questo potrebbe arrivare dal terzo settore. «Durante questi incendi – sottolinea il presidente – stiamo avendo conferma del grande apporto che arriva dal mondo del volontariato e del terzo settore». 

Da qui sarebbe partita l’idea di un bando pubblico con cui affidare i boschi a soggetti del terzo settore, associazioni e cooperative sociali «con un contratto – spiega Caputo – che prevede un contributo iniziale del 50 per cento, mentre l’altra metà verrebbe consegnata a fine stagione». Questo, però, solo a patto che sia bruciato meno dell’uno per cento del territorio affidato. «Il principio è sempre quello della responsabilità – spiega Caputo – I terreni, se gestiti, difficilmente prendono fuoco: per questo abbiamo bisogno di aumentare i custodi di questo immenso patrimonio naturale. Anche perché siamo, ancora una volta, di fronte a un enorme danno naturalistico: se una vasta area prende fuoco, cambia. E non è solo un discorso di altezza degli alberi o della piante, la cosa grave è che ci sono alcuni luoghi dove non nascerà più un albero. Insomma – conclude Caputo – è difficile che nel terreno si ripristini lo stato di naturalità che c’era prima dell’incendio».


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